lunedì 27 dicembre 2010

ALLA DERIVA: Parchi e giardini 1/2 - Come cancellarli



A intervalli più o meno regolari, Milano si accorge di respirare male: sofisticatissimi rilevatori (o rivelatori?) di polveri sottili e altre amenità avvertono tramite le redazioni di giornali prescindibili che soglie oltre le quali neanche Città del Messico sono state oltrepassate.
Un allarme periodicamente strillato che aggiunge poco o nulla alle proprie umili intuizioni. Dato che attaccarsi a un tubo di scappamento è intuitivamente dannoso, averne migliaia che ti circondano troppo bene non potrà fare.
Il sindaco di turno fa un paio di dichiarazioni attendiste e, se si è davvero messi male, indìce pagliacciate come le domeniche a piedi, iniziativa che ti impedisce di prendere la macchina nell'unico giorno in cui riusciresti a circolare, lasciandoti nel contempo tutto il tempo per 1) odiare i tassisti più di prima 2) scoprire che i mezzi arrivano tardi anche con le strade sgombre 3) rischiare comunque di essere investito in bici da uno degli innumerevoli veicoli con specialissimo permesso di circolare che sembrano aver tutti tranne te.
Le polveri tornano nella comunque orrenda norma per qualche ora e poi si ricomincia.
La discussione si sposta quindi sul verde (secondo una singolare teoria che vede gli alberi come dei mangiasmog forniti e inaffiati da Madre Natura in persona) e giuro di ricordare un qualche sindaco o assessore tirar fuori un qualche studio per il quale, tra le metropoli europee, Milano avrebbe uno dei più alti coefficienti di verde dentro l'area urbana.
Difficile dire quale verde sia stato conteggiato - se ci rientri anche quello dei semafori o dei campionari di moquette scadente o dei campi da calcetto coperti o dei cinque euro - fatto sta che chiunque a Milano ci viva non può che ritenere la sua intelligenza offesa.
Qualora si abbiano dubbi in merito, una visione dall'alto della città - arrampicatevi, affittate una mongolfiera o infiltratevi nel nuovo palazzo della regione - li fugherà. Quello che vedono le aquile e le antenne altro non è che un enorme paciugo edilizio che ha come scusa i bombardamenti e come predominante il grigio piccione.
I parchi spelacchiati sgomitano per farsi vedere, accerchiati dalle gru e dalle parabole e dagli attici degli assessori che dicono cazzate.
A tarpare ulteriormente ogni loro entusiasmo, si è pensato bene di cancellarli, recintarli, impacchettarli e, nei casi peggiori, dar loro nomi di nuovi improbabili eroi per soddisfare giunte revisioniste e presuntuose che credono che amministrare una città voglia dire cambiare i nomi alle cose e mettere in piazza a Natale un albero più alto di quello dell'anno prima.
Ecco quindi spuntare un parco per Sergio Ramelli, i giardini Indro Montanelli e ancora i giardini Quattrocchi (non il puffo, ma il mercenario ucciso dopo aver detto una battuta scritta forse da Totti che ha fatto sentire tanto fieri i paramilitari della penisola. Quindi sì, il puffo) e quello dedicato a Oriana Fallaci (la consolazione ovviamente è poter portare un qualsiasi quadrupede a cagarci sopra).
E mentre qualcuno provvedeva a tali battesimi, altri provvedevano appunto alla cancellazione (è singolare che mettere cancellate diventi cancellare così facilmente) di punti chiave della vita libera della città.
Vale a dire, su tutti, il Parco Sempione e Piazza Vetra (o Parco delle Basiliche, ma nessuno l'ha mai chiamato così).
Due casi chiave nella recente storia del naufragio milanese - dato che negli anni novanta erano due dei massimi punti di aggregazione incontrollata per buona parte degli studenti milanesi e non solo.
Il primo, che si estende dal castello sforzesco all'arco della Pace, ospitava ogni giorno fiumane di giovincelli ardimentosi, bigianti, pensanti, fumanti.
Inevitabilmente, al seguito, una nutrita schiera di spacciatori che nascondevano dietro ai cespugli il più classico dei fumacci da campetto (ricordo che, ancora 15enne, andai a comprare da un gruppetto di marocchini che non facevano altro che giocare a frisbee, e quando c'era richiesta semplicemente lanciavano il frisbee verso il cespuglio chiave - e chi andava a recuperarlo tornava con il fumaccio sotto al frisbee. Furono beccati credo poche ore dopo, ma il piano era lodevole).
Mi sembrava il centro del mondo, un luogo da cui far partire rivolte o discese agli inferi, dove diventare grandi e fare sbagli e dare baci e correre rischi e darsi pugni. Da fuori, agli occhi di chi grande già era, doveva invece sembrare un grosso giardino in cui era diventato più complicato andare a far pisciare il cane - perché era pieno di ragazzini sdraiati e di negri loschi. Sarebbe stato sufficiente prendere in mano la situazione, fare distinguo e controlli per evitare che la situazione degenerasse o che la malavita seria si intrufolasse più profondamente, sarebbe bastato intervenire con misura e severità, lasciando che restasse per molti prima di tutto un luogo dove sentire la propria città.
E invece.
Ci fu una pioggia di telecamere, di cancelli e di polizia, e da un giorno all'altro a Parco Sempione diventò un posto da evitare come l'ufficio del preside.
Uguale destino ebbe Piazza Vetra, che condivideva col Sempione vitalità e problemi analoghi. In quest'ultimo caso, date le ridotte dimensioni dell'effettiva zona prato, i cancelli parvero - e paiono tutt'ora - un vero affronto alla libertà di movimento (non quella dei cani e rispettivi padroni, ora incontrastati sovrani di ogni giardino milanese) e al buon senso.
Superfluo aggiungere come nulla sia cambiato nella quantità di stupefacenti all'interno dei confini cittadini: negli ultimi dieci anni, i quindicenni fuori dai parchi non devono neanche seguire i frisbee per avere un po' di coca, droga che si trova meglio con l'asfalto e che per molti e noti motivi non ha neanche tutto questo bisogno di non farsi vedere.
Chiude la poco invidiabile rassegna di parchi e giardini che appunto la sera chiudono, il misero giardinetto di Viale Montenero - protagonista suo malgrado di pietosi scontri municipali degli ultimi anni. La storia è un esempio chiave del recente andazzo milanese: capita che un bar tra i molti, anni fa, decida di mettere la birra a tre euro - che a Milano è un evento - il mercoledì. La voce gira, la gente arriva e si accalca nel praticello antistante (vedi a inizio post foto d'epoca raccattata in rete). Nel frattempo l'offerta decade, ma la gente non se ne accorge e ne chiama altra. In breve, grazie a un passaparola furioso e a un evidente bisogno di sentirsi-in-mezzo-a-tante-persone-che-bevono-per-non-sentirsi-soli, il giardinetto diventa meta ogni mercoledì di un enorme popolo senza idee e anche senza colpe. Una sorta di gigantesco intervallo dove scorrazzare da un gruppetto all'altro con la birra in mano o restare in disparte a far finta di aspettare qualcuno.
Mercoledì dopo mercoledì, ecco farsi strada il solito copione: i giovini fanno baccano, i giovini buttano le bottiglie per terra, i giovini si sono organizzati e si portano le birre da casa invece che comprarle nel bar di cui sopra o in esercizi limitrofi con evidente mancato guadagno dell'economia della zona.
E cominciarono le retate e gli agguati di vigilaglie e polizieidi assortite.
Nessuno sembrava aver notato i vantaggi della situazione, del fatto che migliaia di persone si radunassero ogni mercoledì in un posto senza nessun apparente motivo - un fenomeno che si poteva con intelligenza (o con malignità, a seconda del soggetto) trasformare in qualcosaltro con sforzo minimo, un migliaio di persone e più al quale si poteva dare un motivo.
Macché. Un bel giorno si decide di cancellare il giardino, iperbole con cui si cerca di descrivere una sorta di isola di traffico con sopra un totale di forse duecentomila fili d'erba e dieci alberi dieci.
Un paio di settimane di proteste, qualche sit-in e poi le ruspe - ma in fondo era difficile unire in una lotta gente a caso che si ritrovava lì solo a bere, a condividere solitudini e avverbi di circostanza e una legittima voglia di stare all'aperto con altri simili.
Un cancello verde - per farlo rientrare nel conteggio di cui sopra - che lo percorre tutto con paletti appuntiti come baionette e così vicini l'uno all'altro da lasciar intravedere appena il resto della cancellata (che è tipo otto metri più in là).
Chi lo costeggia oggi senza sapere la storia dietro, crederà che tra quei quattro fili d'erba vi sia un tesoro, uno scrigno da tenere al sicuro quando arriva la notte e i briganti scorrazzano.
Quindi, quando tutto era ormai finito e i giovini erano stati sparpagliati di nuovo con successo, il coup de theatre, l'affronto ultimo della marmaglia che dirige questo squallido borgo, la dimostrazione che neanche se restassi chiuso per un anno in ascensore con uno qualsiasi di loro riuscirei a giungere a una sola verità condivisa.
Ovvero, di nuovo, il nome - la modalità di rivendicazione preferita dai barbari senza storia.
Non so chi l'abbia proposto e non so quanti a Milano lo sappiano, ma ora quel cagatoio per cani conteso ai giovinastri che avevano semplicemente trovato un modo dove trovarsi che non fosse facebook, quella nuova conquista dei cittadini dormienti e complici si chiama Parco del Muro Di Berlino, o meglio ancora Giardini 9 Novembre 1989.
Ok. Fatemi uscire dall'ascensore please.

venerdì 24 dicembre 2010

ALLA DERIVA - Phone Center o dell'integrazione pericolante





Tra le tante piccole e grandi paure che frenano questo paese, ha spiccato per deficienza in questi anni il decreto Pisanu - che costringe chiunque decida di offrire una connessione wi-fi a
1) chiedere il permesso al questore
2) chiedere i documenti a chiunque vi si colleghi
3) documentare su un apposito registro tutti i movimenti e i siti visitati da ciascuno dei fruitori
4) conservare detto registro fino a più infinito per eventuali controlli.
Un caso tutto italiano motivato dalla ormai leggendaria lotta al terrorismo - una singolare attività occidentale nata 9 anni fa che ha come principali attività il cercare gente con la barba lunga e il turbante nelle grotte del deserto afghano e il cercare gente con la barba lunga nel resto del mondo, specie quella tanto furba da aprire siti in cui organizzare attentati come fossero partite di calcetto.
Stupisce che negli anni 70 si riuscissero a fare dieci volte gli attentati che si fanno oggi con l'ausilio dei telefoni fissi, dei fax e nulla più.
Potere del passaparola?
Ciò detto, pare che il decreto Pisanu non verrà prorogato oltre il 31 dicembre e, anche se non è chiaro cosa ci si debba aspettare dal giorno successivo, è lecito immaginarsi che esercizi di ogni genere comincino a sparare il segnale wifi tutt'attorno senza perquisizioni di sorta.
E' ancora da capire se questo nuovo scenario decreterà la fine del pittoresco mondo degli internet point milanesi - che internet point non si sono mai chiamati.
Finora infatti, fatta eccezione per pochi sparuti e tragici casi di internet cafe (con burocrazie degne delle 12 fatiche di Asterix, prezzi indegni e una puzza sotto il naso epocale, manco ti facessero viaggiare nell'iperspazio), l'unico modo per controllare la posta in giro per Milano era (o meglio è - ancora per le prossime settimane) entrare in un phone center.
Nascosti da vetrine che recitano quanto costi al minuto una chiamata in Bangladesh o in Siberia (curiosamente, sempre molto meno di quanto io spenda per chiamare gente che abita quattro isolati più in là), i phone center sono stanzette generalmente fatiscenti che sfidano i metri quadri per cercare di piazzare quante più cabine telefoniche possibili. A lato, scrivanie che neanche il primo prezzo ikea con su altrettanti computer dove connettersi via skype col Perù o con la Nigeria.
Nello spazio che avanza, la cassa, dove mostrar documenti e inviare soldi in Turkmenistan o in Siam (pagando commissioni da strozzini a compagnie che per effettuare il trasferimento spendono qualcosa di asintoticamente vicino allo zero).
Entrandovi, è difficile intercettare una sola parola italiana: inevitabilmente, la frequentazione dei phone center è quasi interamente straniera, spesso divisa per continenti (difficilmente nei phone center africani dietro porta venezia vedrete colombiani - e viceversa in quelli a predominanza latina).
Milano è infatti capitale europea di dis-integrazione: nonostante la percentuale importante di ospiti d'ogni dove, è praticamente impossibile incontrarsi con altre etnie in spazi comuni che non siano i mezzi pubblici (che brillano per reciproca ostilità di tutti contro tutti).
Esistono locali per cinesi, locali per sudamericani e locali per italiani - ma non c'è pericolo che ci si trovi tutti assieme a mangiar qualcosa, a guardare un concerto o sadio cosaltro.
Per anni, in mancanza di un portatile o semplicemente spinto dalla poca voglia di restare in casa, i phone center mi hanno offerto riparo e connessione.
Dentro ci ho trovato umanità d'ogni sorta, fotografata nel cruciale e spesso bellissimo momento di contatto con famiglie distanti migliaia di chilometri.
Ognuno a modo suo: sudamericani che urlano nelle cornette come ossessi, probabilmente per dire cose tipo "ciao" o "che tempo fa lì" (da fuori e senza sapere la lingua, una telefonata di mia nonna gallipolina dev'essere identica), bambini collegati via skype con lo zio che suda via webcam da Calcutta, l'ucraina di fianco che ti chiede come entrare su facebook, e ancora cinesi che guardano video di popstar cinesi su youtube o egiziani venuti lì per scrivere su Word e poi stampare il menu della pizzeria (un giorno ne aiutai uno per il menu di capodanno, e mi mimava i piatti perché non sapeva che nome avessero).
Insomma, un raro - a Milano rarissimo - momento di incrocio e contatto tra popoli.
Certo fare il primo passo può non essere facilissimo: bastano pochi passi e ancora meno sguardi in alcuni phone center per rendersi conto di essere uno dei primi italiani mai entrati lì dentro. Ma il dubbio d'essere fuori posto è lo stesso che ha quello dietro la cassa del phone center ogni volta che entra in un negozio italiano.
Se dio (uno a caso) vuole, in alcuni phone center situati in luoghi strategici e spesso vicino a università o simili, si comincia ultimamente a notare un sano miscuglio di facce, colori e taglio degli occhi - italiani compresi.
Uno di questi, Jasmin Phone, gestito da un libanese dal sorriso perenne e dalla barba di matusalemme, mi ha fornito la rete per oltre tre mesi, quando a casa latitava - e più di una volta mi ha tenuto da parte chiavette o portafogli dimenticati lì - mentre con felicità osservavo un crescente numero di popolazione indigena milanese recarvisi per i motivi più disparati.
Una sera però, mentre posto date dei Ministri su Facebook seduto su uno sgabello pericolante, irrompe la Polizia. Sono in cinque, in borghese, e come da copione sono delicati e educati come cinghiali in un orto.
Il libanese sorridente viene assalito e gli viene intimato di mostrare per filo e per segno la navigazione dei due marocchini che avevo a fianco (uno alle prese con faccialibro come me, l'altro che guardava il sito di Trenitalia).
Il libanese sorridente (ora meno) cerca i tabulati ma il computer - che ha vent'anni e sta insieme col vento a favore - s'impalla. Nel frattempo, ai presenti è fatto ordine di non muoversi dallo sgabello pericolante, e i pulotti, sempre più minacciosi con chiunque in quella stanza non parli bene italiano (cioè tutti tranne me e una parte dei poliziotti), incominciano a chiedere documenti, permessi di soggiorno, motivi della presenza e dettagli sull'attività in rete di ciascuno dei presenti, per poi ricominciare a strigliare il libanese sorridente minacciandolo d'ogni cosa se non avesse tirato fuori una sequela infinita di documenti relativi al phone center.
Il libanese in questione ha una conoscenza dell'italiano pari a quella che ho io del cinese, figuriamoci cosa capisce di burocrazia strillata in calabrese dal pulotto antistante. In quanto italiano, sono l'unico salvo dal sospetto di attività terroristica, ma d'altronde nessuno capisce il motivo della mia presenza lì dentro - quindi per sicurezza mi tengono lì in stato di fermo.
Fuori, oltre il vetro con le tariffe per il Bangladesh, mi aspetta una persona - ma mi è proibito uscire o dirle cosa mai stia succedendo.
Per l'appunto, cosa stava succedendo? Cinque persone di nazionalità diverse si facevano i cazzi loro seduti vicini vicini davanti a computer rattoppati, chiedendosi occasionalmente aiuto casomai uno non fosse riuscito ad aprire la propria casella di posta o a stampare il proprio curriculum o a disimpallare il computer. E dietro il bancone, un libanese reo di non poter dimostrare quali cazzeggi avesse fatto su internet quello più arabo dei presenti.
Per trenta minuti, nel mio phone center di fiducia gli italiani sono in maggioranza - ed è il momento più brutto che abbia mai passato là dentro.

mercoledì 22 dicembre 2010

ALLA DERIVA - Bar 4/4 Le inevitabili conseguenze (l'evoluzione cinese)

bandiera cinomilanese


La spudorata avidità del bar milanese medio - che ricorda quella dell'Autogrill medio (cioè dell'Autogrill, dato che sono tutti uguali) - non poteva non destare l'attenzione di chi è per struttura, ideologia e formazione, capace di vette di avidità e furbizia ben più alte delle nostre.
Ovvero, i compagni cinesi - che hanno in mano Milano più o meno come mio fratello ha in mano il tabellone di Risiko quando sta per tirare fuori l'obiettivo.
Non c'è bisogno di essere dietrologi o impiegati del catasto per osservarlo: semplicemente, vai sotto a casa a prendere il cappuccino e, a dartelo, al posto di Mario, c'è Wang Xiu - che per comodità ha per altro deciso di farsi chiamare Mario. Il caffé in media non è peggiore di quello che bevevi prima e scopri che non ti mancano poi tanto le frasi di circostanza di Mario 1.0.
Insomma, è tutto identico - il che vuol dire che neanche a Wang Xiu gliene frega un granché di metterci dell'anima dentro alle patatine, all'impianto stereo, ai tavolini e via dicendo. Se vuoi un succo di frutta, come in un qualsiasi bar milanese di milanesi, quello ti prende un succo di frutta dal frigo, lo apre, lo versa in un bicchiere che speri pulito e te lo mette sul bancone (costo dell'operazione: circa 3 euro, roba che se mi dici dov'è il frigo lo faccio io). Solo che, in più, capisce che per battere il bar di fianco è meglio fare i furbi alla cinese - che vuol dire abbassare i prezzi e tenere aperti più o meno sempre.
Se il bar di fianco è italiano, incomincerà a dire che è impossibile lavorare così tanto e fare prezzi così bassi, che di sicuro fanno qualcosa di orribile nel retrobottega. Se il vicino è già un bar cinese, si limiterà a togliere il più o meno e comincerà a stare aperto sempre. Il che è un indubbio vantaggio per te che cerchi una brioche a pasqua (ma non solo: i cinesi a Milano ti salvano la vita e la pancia spesso e più che volentieri), ma vuol dire anche che il bar in cui entri è praticamente la concretizzazione dei non-sogni dell'italiano che c'era prima - attuata da uno che sa far cassa senza chiaccherare troppo.
Valga ad esempio il geniale insediamento di una gestione cinese in uno sciagurato bar di Viale Corsica: i china entrano, non cambiano nulla - insegna, bancone, nomi e composizioni dei panini - ma si limitano ad abbassare vistosamente i prezzi cancellando col pennarello i precedenti sul menu e scrivendo in malo modo di fianco i prezzi nuovi. In più, si inventano una tesserina che panino dopo panino accumuli punti e vinci i premi dietro al bancone - ovvero una sequela di oggetti improbabili recuperati a destra e a manca, che vanno dall'oscar mondadori sbiadito di Susanna Tamaro alla finta sciabola cinese al buddha porta spazzolino alla sciabola vera (premio massimo, tipo dieci tessere complete). Come dire: non solo facciamo i panini uguali a quello che c'era prima, ma li facciamo pure pagare meno e ti regaliamo quello che abbiamo trovato in soffitta.
Geni.
Che i cinesi siano il nuovo step evolutivo del milanese? Del resto, lo struzzo viene dopo il velociraptor - non viceversa.

domenica 19 dicembre 2010

ALLA DERIVA - Bar 3/4 Considerazioni inattuali sulla musica da bar

hopper lego

Immagino che gestire un bar non sia cosa da nulla - come più o meno qualsiasi cosa si scelga di fare con l'obiettivo di arrivare a fine mese (eccezion fatta per i maestri di surf australiani e i notai).
E molti gestori di bar leggendo quanto scritto sopra, probabilmente non vedono l'ora di darne in mano uno a me o a un qualsiasi milanese indignato - per vedere che razza di disastro riusciremmo a combinare.
L'argomentazione principe è che se il bar di fianco incomincia a fare il furbo, o fai il furbo anche tu o in tre mesi chiudi.
Neoliberismo da bancone insomma - che però curiosamente non attechisce in buona parte del resto d'Europa, dove spesso i bar sembrano effettivamente l'espressione di un progetto/sogno di chi l'ha messo in piedi.
La musica, per me inevitabilmente non secondaria, è un'ottimo campo d'analisi: nelle grandi città europee e non solo, chi gestisce il posto decide quali note debbano invadere il locale - che si tratti di Wagner, reggae o di musica neomelodica bavarese. La cosa non dovrebbe stupire: negli anni passati a metter via soldi per metterlo in piedi, passati a sognare e progettare, ci sarà stata pure una sera in cui avrai detto al tuo compagno di sogni e poi metteremo la musica che vorremo noi e la gente verrà per ascoltarla e alla mattina ci sarà Schubert e a pranzo Satie e alla sera Donald Fagen e non ci sarà un altro bar con la musica uguale.
Bene, a Milano non accade nulla del genere.
Il novantotto per cento dei bar (la percentuale è figlia del mio ingiustificato ottimismo, non della mia esperienza che direbbe cento) ha semplicemente la radio.
E non, che so, una delle diecimila ottime webradio che si possono trovare in giro: no, la radio italiana - quell'esperienza orribile e offensiva che mette in rapida sequenza ore e ore di pubblicità ad altra pubblicità, inframezzata da successi del 1989 e speaker felici di non si sa che cosa mentre dicono parole circa questioni di cui non vogliono sapere nulla parlando occasionalmente al telefono con gente che vuole semplicemente salutare quelli a casa.
E tu, dopo tutta la fatica che hai fatto per mettere su il tuo bar, non sai far altro che accendere la radio, obbligando chi beve il caffè all'attacco senza senso di venditori di macchine, caffé, assicurazioni, satelliti e musica di merda, ai jingle ostinatamente eccitati, ai luoghi comuni che già i bar ne sono pieni, alle sigle e alle notizie delle agenzie su che cosa ingrassa e cosa no che cominciano sempre per pare che.
La tragedia è che nel bar di quello che cerca di fare il furbo dieci metri più in là, succede esattamente lo stesso.
Vedi mai che se mettessi un po' di musica decente, o semplicemente se ti mettessi in gioco, la gente comincerebbe a venire a ingoiare i tuoi di panini - qualsiasi cosa tu ci metta dentro, qualsiasi cresta tu ci faccia sopra.
Vuoi vedere che non sei furbo né tu né quello di fianco.

PS: ieri a Bologna bevevo un vodka lemon grosso così in un baretto coi tavolacci e i libri da spulciare e la gente contenta. E in sottofondo, ma neanche troppo, c'era Nick Cave. E poi qualcosaltro deciso da qualcunaltro. Da qualcuno, non dagli interessi di un gruppo editoriale o da quelli che comprano gli spazi pubblicitari per i biscotti o dalle marie de filippi o dai mafiosi travestiti da realisti o semplicemente dagli stupidi e dai poco curiosi. Insomma, si può fare.

venerdì 10 dicembre 2010

ALLA DERIVA - Bar 2/4 Supremazia della pausa pranzo

I discutibili talenti dei baristi milanesi sono diretti responsabili anche dell'atroce fenomeno della pausa pranzo, evento socio-atmosferico che avvolge tutta la città (con picchi preoccupanti nelle zone circostanti uffici) dalle 12 alle 14.30 come un'aurora boreale di salsa e cotolette scongelate.
Da alcuni anni, i bar si sono accorti che speculando su secondi travolti dalle microonde e ravioli di marmo possono pagarsi le rate della bmw nuova senza rinunciare al satellite. Ma andiamo con ordine.

FARCIRE E' UN PO' MORIRE

ciardi copy


In prima fila nella dieta tutt'altro che mediterranea del milanese medio, resistono ancora i panini - accatastati, impilati, piramidati, con didascalie del tipo "carpaccio di bresaola" derivanti dal fatto che pur di risparmiare sul salume i milanesi stanno diventando dei tagliatori che neanche quelli del pesce palla - dal prezzo oscillante tra i 4 euro e i suoi multipli.
Con picchi preoccupanti: rasenta la denuncia la filiale (non è un caso che si usi un termine tipico del sistema bancario) de "il Panino Giusto" in centro città - che con acrobazie linguistiche degne di Borges è capace di farvi pagare financo otto euro paninetti di dimensioni festa-delle-medie con prosciutto cotto (di cui per l'occasione verrà citata la provenienza, l'affumicatura o il nome del maiale) con un indizio di paté sulla mollica. Seguono a ruota pressoché tutti i bar della zona - e il panino sarà tanto più corto quanto più vicino al Duomo.
Se proprio di panini bisogna morire, lo si faccia con stile.
In Crocetta, nel bar omonimo, di fianco al Teatro Carcano, da molti non so quanti anni vengono serviti panini-monstre che in generale le donzelle fanno fatica anche solo ad addentare. Il costo rimane importante (dai 6 euro in su) ma qui si parla di un pasto completo con successive promesse di non mangiare nulla la sera che viene. Nota biografica: qui, in un'ubriacatura pomeridiana a 16 anni conobbi le potenzialità della voce di Divi, che dopo un paio di tennent's incominciò a strillare pezzi dei Nirvana e degli Oasis, per farmi capire che faceva sul serio.
Di uguale peso affettivo e calorico è Margy Burger(Ciardi, al secolo), sorta di anomalo fast food alla milanese che offre - in una cornice di legno d'altri tempi - principalmente panini con wurstel e crauti rossi, hamburger di varie stazze, sandwich col landjeger o con lo sgombro (pesce generalmente ignorato dai grandi circuiti di franchising). Le foto dei panini sono le stesse di quando avevo otto anni e mia madre mi portava a ingozzarmi dopo il cinema - quando ancora c'erano i cinema in centro, ma questo è un altro discorso. Ottimo anche dopo le manifestazioni, dato che l'ubicazione - Piazza Santo Stefano - è quasi sempre di transito o destinazione per la maggior parte dei cortei milanesi.
In coda alla veloce e sicuramente incompleta panoramica dei panini milanesi seri per la pausa pranzo un ameno e anonimo baretto in viale bligny, all'altezza della Paolo Grassi, che senza nulla esporre e nulla promettere, per tre euro e mezzo compie veri miracoli. Un caso raro che ricorda una sana regola: se il paniname è già esposto, farcito e prezzato, non c'è da fidarsi.
Nascita e morte: vogliamo vedere tutto, noi.

INSALATONA PUNITIVA

tonno


Da molti anni ormai ci si trova però a fare i conti anche con primi piatti inquietanti, nature morte di maccheroni e sughi immobili che scorrono giù dagli spaghetti come cascate congelate in un giardino finlandese.
Seguono a qualche misura di distanza le insalatone.
Chiunque abbia fatto una sana vacanza al risparmio sa che il cibo più economico e - sul breve tragitto - capace di soddisfare o almeno riempire, sono le scatolette. Fagioli, mais, tonno e qualsiasi altra cosa l`uomo abbia deciso di costringere nella latta per i posteri. Provate a mangiarle per dieci giorni: sarete costretti a mettervi il balsamo di tigre sotto al naso come Dana Scully ogni volta che andate in cesso. Nessuno stupore: quando si mangia qualcosa che promette di essere buono fino al 2021, vorrà ben dire che buono non può esserlo mai stato. Le insalatone non sono altro che un impietoso mix di questi normalmente onorevoli rimedi per disperati, arricchiti da truffe a cielo aperto come la polpa di granchio o il palmito. Sei euro minimo - roba che in campeggio ci campavi una settimana.
Ovviamente la nascita e successiva affermazione delle insalatone è figlia dell'era pesoforma in cui ci ritroviamo ormai da almeno dieci anni.
Se vi interessa la faccenda e volete vivere un'esperienza veramente severa e annichilente, fate un salto al centro macrobiotico subito sopra all'ufficio del turismo francese in via Larga: l'ambiente, simile alla sala ricreazione di una clinica austriaca o di una setta con progetti suicidi, è capace di mortificare ogni appetito. Casomai degli scampoli dovessero resistere fino all'effettivo momento della nutrizione, saranno atterriti da una sequela di tortini e brodini che riescono a schivare il sapore, l'odore e tutte le principali caratteristiche dei cibi tanto da farvi chiedere se non siate effettivamente malati. A confermarvelo, un personale di suore travestite da maestre d'asilo che imporranno un silenzio grave e colpevole in sala, per poi chiedervi diversi dobloni. Comunque, un'esperienza - e ottima occasione per incontrare managerotti pentiti e signore-bene che portano in giro il cane e il flacone di antidepressivi.

PS: scopro che il palmito, vale a dire il midollo della palma con cui tanti panini e insalatone vengono sovraprezzati, si ricava principalmente dalle palme abbattute per motivi altri, quali - principalmente - la costruzione di nuove strade. Lo sapevo.

SOTTO IL CAPPUCCIO NIENTE

cappuccio

Anche se cronologicamente la colazione precede la pausa pranzo, gerarchicamente quest'ultima - che concede margini di guadagno ben più elevati - surclassa drasticamente il momento di cappuccio e brioche.
Fino a sovrapporcisi: già dalle nove e mezza del mattino, il barista medio milanese ha nei confronti del colazionaro il più totale disinteresse - e si adopera invece per cominciare a farcire panini e scolare scatolette di tonno per gli usi più svariati. Il risultato è spesso una confusione di odori e visioni che tramutizzano ulteriormente la misera brioche che vi ritrovate in mano - spesso gnucca come un buondì dimenticato dall'estate scorsa (in piazza 24 maggio, sotto i portici, ci sono le brioche buone - ma anche da tale Ponky's, che sembra il bar del Meazza, vicino a corso genova. Se volete ingrassare di un etto appena svegli, andate invece alla pasticceria eoliana di Via Ortica - dove mettono la ricotta anche sullo scontrino).
Vale la pena poi di segnalare una fastidiosa e ormai affermata novità della colazione milanese: quando ordini un cappuccino, quello oltre al bancone chiede ci vuoi il cacao?, ritornello nato negli ultimi due anni (prima, giuro, non succedeva) che probabilmente eccita l`annoiato barista ma che irrita chiunque abbia piu` di 12 anni o perlomeno me.
Perché al mattino già mi girano i coglioni e se lo volevo col cacao te lo chiedevo. Il cappuccino è una sequenza di caratteri alfabetici che indica una certa bevanda. Per il cappuccino col cacao si trovi a questo punto un`altra sequenza alfabetica, dato che non costa niente inventare parole. Non abbiamo tempo per perdere tempo col menu delle opzioni - specialmente a Milano.
Ovviamente esistono sparse qua e là pasticcerie d'alto rango (in media carissime e con quell'aria tra il bastonata e il saccente della Milano che non è più quella di una volta) che sono o sarebbero capaci di colazioni coi fiocchi, ma per motivi ignoti nessuno osa andare oltre all'onnipresente brioche gnucca.
Le mille esperienze di pasti mattutini che si consumano nel mondo sembrano non valere alcunché, a Milano sembra che il corpo umano abbia fisiologicamente bisogno di cappuccino, cornetto e null'altro per sopravvivere tra le polveri sottili.
Io, che al mattino mangerei anche il ragù di cinghiale, soffro e invidio terribilmente i peruviani che incontro davanti al loro consolato - già alle dieci pronti a ingurgitare zuppe, spezzatini e ali di qualsiasi uccello voli sulle Ande o sugli Appennini.

mercoledì 1 dicembre 2010

ALLA DERIVA - Bar 1/4 Decostruzione di un sogno

bar dei sogni

La prima e più netta impressione che si ha da un primo incontro coi bar milanesi è che per nessuna delle teste presenti dietro a cassa e banconi sia mai transitato il pensiero voglio aprire un bar tutto mio.
Con una certa legittima approssimazione immagini che in compenso sia passata l'idea voglio fare molti soldi e alla peggio voglio lavorare in un posto dove posso rubare i gratta e vinci (per poi fare molti soldi).
Pressoché nulla di ciò che vedrete in un bar di Milano (le eccezioni, come si diceva nella premessa di questa guida, ditecele voi - ma sappiamo già essere tristemente poche, come è lecito attendersi dalle eccezioni) è figlio di un anelito d'amore o speranza nell'umanità: piastrelle, bancone, legno ed eventuali balaustre, ballatoi, ringhiere, mensole sono in genere un campionario del peggio che sia mai stato prodotto nei rispettivi settori - dorature improbabili, finti graniti e bare di legno laccate che sembrano uscite dallo yacht affondato di un industrialotto arricchitosi coi cavalli. Si faccia attenzione: tali valutazioni non dipendono da chissà quale gusto di cui solo il sottoscritto è depositario. Lo sanno anche loro.
La maggior parte dei bar sceglie il peggio con coscienza, risentimento e rancore - va incontro al brutto per confermare una visione dell'esistenza caratterizzata da un profondo cinismo (spesso figlio di dolori fiscali) e da un generico imbarbarimento dei costumi - cui non opporsi per evitare guai.
Chi non ne fosse convinto, si trattenga un po' di più in uno dei tanti bar tabacchi della città - a qualsivoglia ora del giorno.
Scoprirete presto, tra le altre cose, un'area dedicata ai videopoker - praticamente l'equivalente delle stanze del buco o, se preferite, di una sorta di Sert con le ciliegine al posto del metadone.
La popolano individui dannati per l'eternità - o perlomeno fino all'orario di chiusura - che imperterriti si scontrano con le leggi della statistica, con il loro pacchetto di MS e con un senso di vuoto che neanche la peggiore delle vostre domeniche pomeriggio. E' gente che sta male, e non c'è bisogno dello stetoscopio per affermarlo - e i tabaccai/baristi o chi per essi riescono a lasciarsi passare davanti agli occhi queste umanità in caduta libera senza mai dire nulla.
Neanch'io sono per l'intrusione nelle vite e nelle rovine altrui, ma cristo - sei tu che stai dando loro il veleno, sei tu che cambi loro le monete, sei tu che hai scelto di averli lì, sei tu che hai scelto che continui così.
Qualsiasi giudizio, anche il più cinico, si abbia in merito, è tristemente inevitabile riconoscere a buona parte dei baristi una capacità di epoché e di distanza dalle cose umane che solo un cattivo della Disney potrebbe vantare.
Ma come appunto la Disney insegna, i cattivi perdono.
In questo caso, perlomeno, perdono clienti.
Del come e se ne parlerà nei successivi tre capitoli, cercando di trovare qualche esercizio che sfugga alla regola.

P.S. Non è un turismo che consiglio, ma al bar di Piazza Piola il triste parallelo tra stanze del buco e videopoker raggiunge una concretezza sfolgorante: le tristi macchinette (parte del ricavato delle quali va dritto nelle casse dello Stato, che le monitora con l'aiuto della Siae) sono confinate in una sorta di grotta-tabacchi all'interno del bar stesso, in un punto in cui la luce del sole non arriva nemmeno nelle mattine di luglio.

P.P.S. L'insegna che campeggia sopra il post è in viale Romagna: il bar - da poco ex tabacchi - non è certo tra i peggiori, ma inevitabilmente soffre più di ogni altro la distanza ideale dal proprio nome.

ALLA DERIVA - Guida in buona fede al naufragio milanese

milano rivolta

La mia città non ha ancora deciso a cosa assomigliare.
Da anni ormai oscilla goffamente tra una sorta di versione open air del primo piano della Rinascente, una città di provincia austriaca che in centro ti senti un turista anche se ci sei nato e un sequel della Milano che c'era prima - di quei sequel con il budget tagliato e il cast sostituito dai parenti del produttore.
Chi vive a Milano, chi l'ama o la ha amata, non chiede necessariamente che assomigli di più al film che ci si è fatti in testa (ad esempio, nella mia idea di Milano, ci sarebbero molti più tappeti saltanti e campi di minigolf - e capisco non tutti ne sentano il bisogno), chiede semplicemente ok, ma dove stiamo andando?
Anche perché se qualcuno pensava di intortarci con lo skyline (parola inglese che vuol dire che se abiti al quarto piano della casetta di fronte non vedi più il sole o - per l'appunto - lo sky), è arrivato fuori tempo massimo.
La speranza della nostra amministrazione è che noi si creda che i grattacieli esistano solo a New York e in Blade Runner - e che perciò, comunque vengano su, ci sarà da essere contenti di far parte di questo così esclusivo club.
Purtroppo per loro, anche la più stronza città della più stronza regione cinese ha una quantità di monoliti multipiano che a confronto sembriamo un plastico del Lego o un set futuribile di Pieraccioni.
L'idea quindi di diventare un posto così a dismisura d'uomo da farci sentire piccoli ma grandi dentro è decisamente da scartare.
Come è ugualmente da scartare l'ipotesi "città d'arte", dato che l'omogeneità architettonica e paesaggistica di Milano ricorda certi miei orribili accostamenti casual domenicali - del tipo pantaloni della tuta, calze spaiate, maglietta e golf di due blu diversi.
Eliminerei senza appello anche il modello "città dei servizi", ovvero quel genere di città che a vederle non ti dicono granché, però come arrivano in orario i tram lì / come funzionano le poste lì / come son gentili i tassisti lì / come trovi da dormire a poco lì / come sono gentili nei bar lì.
A Milano quasi nessuno vorrebbe fare quello che sta effettivamente facendo, e la giovialità ne è la prima vittima.
Rimangono poche desolanti alternative identitarie - tra cui spicca la dottrina della "città della moda", destino che riguarda pochi e quei pochi sono così scemi che neanche si accorgono che, in virtù della moda stessa, la città della moda presto sarà un'altra e poi un'altra ancora.
Propongo quindi di individuare per Milano una deriva (mi sembra a conti fatti il termine più adatto), che tenga conto di quello che c'è - che ci piaccia o meno - cercando di valorizzare le nostre pochezze e le nostre vergogne.
Per far ciò bisognerà essere impietosi, drastici, onesti e insieme incredibilmente positivi - come chi ha perso la fede nuziale in un cassonetto della monnezza e decide di volerla ritrovare costi quel che.
Nei limiti del tempo a disposizione e della buona salute della mia insonnia, l'intera città verrà scandagliata attraverso grossi filoni che - commercialmente o meno - la attraversano, dai bar alle palestre ai mercati dagli internet point ai ponti dai parchi alle panchine strategiche dalle metropolitane ai paninari generosi e ai paninari biechi dai luoghi segreti che segreti non dovrebbero essere e a quelli segreti che segreti dovrebbero rimanere.
Volta per volta saranno assolutamente bene accette segnalazioni di ogni genere, precisazioni, materiale d'ogni fede e bandiera, racconti e - soprattutto - eccezioni, che è quello di cui abbiamo più bisogno.

ps: il cartello in testa al post non è una photoshoppata, ma un singolare caso del magico mondo della segnaletica. Chi volesse verificare o andare a portarvi dei fiori vada verso Linate lungo viale Forlanini, giri a sinistra in direzione Idroscalo e lo vedrà splendere in mezzo a una rotonda.