giovedì 24 marzo 2011

ALLA DERIVA: le dieci migliori code milanesi - parte seconda.




ATTRAVERSARE IL PONTE PEDONALE DI PORTA GENOVA DURANTE IL SALONE DEL MOBILE

Il Salone del Mobile – o del Design o del Soprammobile – è una fiera in cui probabilmente si discute di lampade da comodino che costano come il mio salotto. Dico probabilmente perché, nonostante la venuta del Salone stravolga completamente la vita cittadina, sono relativamente pochi quelli che raggiungono e visitano la fiera propriamente detta. Le transumanze che mettono in ginocchio la città nella suddetta settimana sono piuttosto figlie del Fuori Salone - ovvero una sorta di Oktoberfest della milanesità, una fitta e tentacolare trama di djset, vernissage, happening, finger food, showcase, buffet, afterdinner, showroom, brunch (e qualsiasi altra parola non italiana vi venga per indicare gruppi di persone vestite meglio di me che cercano scuse per bere e mangiare gratis), capace di paralizzare la città più di congiunzioni astrali come sciopero dei mezzi più pioggia più derby. Per testare davvero le potenzialità codistiche del Fuori Salone, bisogna spingersi però oltre le strade, gli ingorghi e le circonvallazioni che paiono presepi di carrozzerie. Precisamente, bisogna raggiungere la stazione di Porta Genova e, nel piazzale, farsi coraggio e impegnare la scalinata del ponte per pedoni e bici che passa sopra i binari e traghetta i dannati in via tortona, epicentro della follia fuorisalonica. Stiamo parlando di cinquanta scalini e cento metri di ponte: per compiere il tragitto nei momenti clou della settimana incriminata è possibile impiegarci anche quaranta minuti (tenendo inoltre conto che, una volta raggiunta la metà del ponte, tornare indietro richiede lo stesso tempo se non di più, quindi tanto vale). Si tratta di un’esperienza per turisti della coda con una certa esperienza, dove la concentrazione di cristiani per metro quadrato vi porterà prima di tutto a chiedervi se durante la costruzione del ponte e la valutazione della sua portata massima sia mai stata presa in considerazione una situazione del genere.
Quindi, vi ritroverete confusi dal cocktail di profumi dei coinvolti e soprattutto delle coinvolte, rischiando pestoni sui piedi con tacco 12. Il tutto sapendo che al di là del ponte vi aspettano altri mirabolanti code per riuscire a prendere un bicchiere di bianco gratis in un capannone in cui quasi tutti sono entrati sentendo dire lì c’è il vino gratis.


PRENDERE UN BIGLIETTO AGLI SPORTELLI DELLA STAZIONE CENTRALE IL 23 DICEMBRE

Informatizzare l’Italia vuol dire sostanzialmente insegnare a mia madre a programmare un videoregistratore - su larga scala e evidentemente non più il videoregistratore. Un progetto ambizioso insomma. Anche perché nella penisola sopravvive strenua una profonda diffidenza nei confronti delle macchine che sostituiscono gli uomini.
Mia madre avrebbe pagato uno per star lì a schiacciare rec alle tre di notte, e se vi capita di passare dalla Stazione Centrale di Milano il 22/23 dicembre, all’apice delle migrazioni natalizie, scoprirete che non è sola: una fila biblica e rassegnata di nonne e nipoti e mamme e pupi aspetta di raggiungere il lontanissimo sportello – soggetto per altro a chiusure improvvise e ad altri trick di Trenitalia – ignorando deliberatamente le macchinette alle loro spalle.
Coscienti e fieri di incolonnarsi perché con le macchinette non si sa mai, disposte a un’ora di coda piuttosto anche solo di sentirsi una volta respinte o confuse da quella specie di Hal9000 in cui devi infilare una banconota da 50 euro. Una coda che rivendica e chiede umanità, insomma. Ottenendola: gli stessi dipendenti di Trenitalia sono chiaramente ostili ai robottoni, e, in combutta con le grandi code, ignorano deliberatamente un qualsiasi tipo di manutenzione delle macchine. Succede insomma che se qualcosa si impalla, la si lascia impallata – con la scusa che tanto la gente non ci va alle macchinette. In quel momento arrivi tu - che come massimo sai cambiare la suoneria al cellulare, ma che sei comunque convinto di potercela fare a prendere il tuo biglietto di seconda classe toccando uno schermo - e tutte le macchinette presenti sono fuori servizio. Ti giri, vedi l’immonda fiumana.
E hai l’impressione che tutti, soddisfatti, per un attimo si girino a guardarti.


COMPRARE ANTIPASTI PRONTI IN UN SUPERMERCATO IL POMERIGGIO DEL 31 DICEMBRE

La superbia del milanese nei confronti della natura e dei suoi tempi fa sì che processi come il cucinare siano considerati spesso antiquati o comunque appannaggio di qualcun altro. Si pretende dal cibo che faccia tutto il possibile per rendersi appetitoso di sua spontanea volontà o che vi sia uno del mestiere capace di convincerlo. Arrivano però momenti in cui, a meno che il milanese non abbia una nonna sforna polpette o un qualsiasi altro terrestre con qualche capacità culinaria e un minimo di preveggenza, si rischiano débacle socio-alimentari mica da ridere. Una di queste è il cenone di capodanno, evento largamente prevedibile per ovvi motivi, che però il milanese doc ama prendere in considerazione la mattina del 31. Casomai nei giorni precedenti si sia lasciato scappare un dai, il cenone lo facciamo da me, si ritroverà mezza giornata scarsa per correre ai ripari – con l’aggravante di non saper neanche fare una frittata. Scatta quindi il tardivo assalto ai supermercati di centro città, alcuni per altro costruiti attorno a questa filosofia del precotto .
Caso vuole però che altre migliaia di milanesi abbiano anch’esse rimandato fino alla zona cesarini la spesa capitale.
L’ondata è tale che anche all’Esselunga di viale Piave, fortino massimo dello yuppismo surgelato, si rischi di finire alimenti di prima necessità come il salmone (con tutto il salmone che si consuma a Milano e in Europa, non si capisce perché Greenpeace e compagnia bella non abbiano un presidio nel baltico: io la balena a capodanno non l’ho mai mangiata). Alla coda ciclopica delle casse si aggiungono corse spericolate ai banchi frigo e sottocode al reparto Rosticceria & Cose Carissime. Se non avete di meglio da fare e il vostro cenone è già al sicuro, vale la pena fare un salto verso le sei di sera per godersi la vista di manager e pseudo manager che ripiegano su sgombro sottolio e olive nere. Se invece siete lì perché vi era finito il caffé, chiedetelo a quelli di sotto e risparmierete due ore nette.

mercoledì 23 marzo 2011

ALLA DERIVA: Il fascino discreto dello stare in fila - guida alle 10 migliori code milanesi (prima parte)


La dialettica di buona parte delle guide di viaggio presuppone che il lettore sia interessato a scoprire luoghi, pertugi, locali e paesini fuori dai grandi circuiti, dalla folla, dalle code.
L’esperienza di chiunque dice invece sempre il contrario: la gente pare attirare altra gente.
Sempre, ovunque, chi fingendo di non avere altra scelta, chi credendo sinceramente che in fondo sia giusto andare dove tutti vanno – perché in fondo il mondo è venuto così, non certo trovandosi ognuno un suo boschetto dove nascondersi.
E’ ora quindi che si affronti con serenità il senso di colpa che falsa l’inconfessabile desiderio di stare in coda.
La fila ritarda l’atto, e l’attesa colma come le grandi pianure dell’esistenza – che a volte assomiglia a un film troppo lungo, con lunghe fasi in cui non succede assolutamente nulla. Questi e altri potrebbero essere i motivi per i quali pur sapendo dove e quando si verificherà una coda, non si fa nulla per evitarlo e anzi si contribuisce attivamente all’esasperarla.
Una guida a Milano – città che adora come poche altre gli ingorghi, che siano di lamiere o di corpi – non può quindi prescindere da una ristretta e pregna selezione delle migliori code cui poter partecipare e contribuire (altra chiave di successo del fenomeno). Ecco le prime tre.

ENTRARE ALLA MOSTRA SUGLI IMPRESSIONISTI A PALAZZO REALE

Nella terra dei videopoker, del neomelodico e di Checco Zalone che fa la storia del cinema, sarebbe lecito aspettarsi un interesse pressoché nullo per forme espressive che non prevedano lamenti d’amore, buoni sconto o parolacce.
E infatti è quasi sempre così, con buona pace di chi teme un nuovo rinascimento. C’è però a Milano una clamorosa eccezione, vale a dire le grandi mostre di Palazzo Reale, un rito col quale il cittadino paga il suo pegno al minaccioso mondo dell’arte – il sacrificio annuale con cui lavar via una colpa che ci si porta dietro dalle scuole. Succede quindi che ciclicamente il Palazzo Reale proponga una mostra con annessa chilometrica coda, una delle più amate dai milanesi – soprattutto perché la si fa per una causa socialmente percepita come nobile. In particolare, si ama stare in coda per gli impressionisti, uno di quei movimenti che non crea nessuno scontro ideologico o estetico durante la coda (frequente invece in casi di arte astratta o in qualsiasi caso non ci sia un albero, dei monti, il mare o i fiori) oppure per nomi che conoscono anche i gatti e su cui sia possibile fare un minimo di gossip (oh, ma lo sai che Dalì è stato con Amanda Lear?).

PRENDERE UN PANZEROTTO DA LUINI

E’ noto che vi siano specialità culinarie italiane difficilissime da replicare al di fuori della loro terra di origine – anche con gli stessi ingredienti e la stessa ricetta. Milano, ingorda e avara, da sempre invidia al Sud una lunga lista di panzerotti, arancini, sfogliatelle che per qualche motivo i padani non c’azzeccano a preparare.
E così, nel tentativo asintotico di raggiungere l’originale, decide che per ognuna di queste specialità esiste uno e un solo luogo che è giudicato capace almeno di avvicinarsi a come l’ho mangiato giù.
Luini ha vinto da un secolo l’appalto sui panzerotti, e da allora è contraddistinto da una coda quasi sempre davvero importante (o almeno nelle ore in cui si ha fame di panzerotti)– e che viene spesso scusata dai presenti, che si aizzano reciprocamente spiegandosi come mai valga la pena farla nonostante l’azione che la conclude (mangiare un panzerotto) sia piuttosto comune. La posizione, a fianco del Duomo, ne determina ancor più il costante successo: un’ottima soluzione se state facendo una pausa pranzo in centro, avete fame, poco tempo e siete a dieta: un motivo fritto per stare in coda, compagnia assicurata, la sicurezza che abbandonerai entrambe perché devi già andare – e intanto hai risparmiato le calorie del panzerotto.


CODA PER PROVARE UN PEDALINO IL SABATO POMERIGGIO DA LUCKY MUSIC

Lucky music è un negozio di strumenti musicali dove si incontrano il fonico di studio, il padre divorziato che vuole appioppare una chitarra al figlio che caga poco, il metallaro in fasce, il metallaro in armi, le fidanzate dei metallari. Tutti prima o poi ci passano, perché costa meno e c’è tanta roba.
Se siete turisti della coda, Lucky Music ve ne offre una molto caratteristica – contenuta nel tempo ma parecchio impegnativa: la missione, comune evidentemente a tutti i presenti, che genera la coda è il voler “andare a fare un giro da Lucky Music a provare un po’ di cose che probabilmente non comprerai”. Motivi ignoti fanno sì che tutti decidano di provarci il sabato pomeriggio – nonostante la maggior parte dei presenti possa passare o sia passata anche durante la settimana. Se appunto il vostro proposito è di provare quel pedalino lì nella vetrinetta dovrete cercare di attirare l’attenzione dell’uomo con la maglietta del negozio, intercettandolo mentre rimbalza da uno che che sta provando pedalini da ore e un altro che deve decidere se la Squier da 200 euri che ha in mano è lo strumento che fa per lui.
Bloccarlo, pronunciare la frase vorrei provare quel pedalino lì, ottenere una risposta, evitare ulteriori adesso arrivo, riuscire a farsi dare pedalino, chitarra, sedia, cavo e ampli, è già di per sé un’impresa mica da ridere. Mentre fate tutto ciò, sarete in più storditi dalla somma sonora di tutti quelli che stanno già provando qualcosa. Un effetto simile all’orchestra che si accorda, o meglio a una pessima orchestra che non si accorda. Con alcuni grandi classici, tra cui spiccano il chitarrista in erba che è venuto a provare tutti gli esercizi imparati in settimana su una chitarra che non ha intenzione di comprare mentre l’amico chitarrista più indietro tecnicamente guarda invidioso e con falso sorriso, quello che fa male riff storici per cercare di farsi amico la gente intorno (della serie, io non sono come quello là, mentre la provo faccio cose che conoscete) con maggioranza di riff dei deep purple, seguita a ruota da Ain’t Talkin Bout Love dei Van Halen e mezzo catalogo dei Metallica. Quasi una sigla del sabato pomeriggio da Lucky Music è invece Eruption, il pezzo più sborone della storia contenuto nel primo dei Van Halen.
In due varianti: integrale o con il solo tapping finale. Provate a sommare le tre suddette esperienze sonore al ciacerare della gente e a quelli che si urlano le cose che sono da prendere in magazzino. Se e quando riuscirete effettivamente a raggiungere il vostro obiettivo sarete quindi posti davanti al grande quesito: e ora che cosa suono per provare il pedalino? Concludendo appunto che era meglio la coda.

mercoledì 16 marzo 2011

ALLA DERIVA: La Darsena o dei nostri cattivi scadenti



La saggezza popolare sassone (o Walt Disney, fate voi) ricorda che perché una storia funzioni c’è bisogno di un cattivo che funzioni – un cattivo a tutto tondo, convinto, astuto, efficace, lungimirante.
Milano, suo malgrado, non ha mai potuto permettersene uno di livello: i nostri villain sono in larga parte goffi, ingordi e disorganizzati e se dovessero sostituire jafar o la strega di Biancaneve farebbero finire i rispettivi film in un quarto d’ora, con un secco e rapido trionfo dei nani e dell’odioso Aladin.
Massima espressione della loro dilettantesca malignità è la Darsena di Milano, uno specchio d’acqua ampio e dalle mille possibilità commerciali che si pone tra i Navigli, coi quali condivide il liquame e i ratti, e Corso di Porta Ticinese, lombrico di pavé colonizzato da boutique per diciottenni dalla paghetta consistente.
In breve, una sorta di lago artificiale nel fulcro della night life milanese.
Ora, nessuno a Milano si è mai aspettato progetti concreti o vittorie politiche dai sognatori o dagli spiriti liberi (sempre che ce ne siano), quindi usi più o meno hippy di quel pezzo d’acqua non sono mai neanche stati nel novero dei nostri più coraggiosi sogni. Altrove, in una parte di mondo che forse esiste e forse no, avrebbero popolato la Darsena di fenicotteri o noleggiato grossi ciambelloni in cui sprofondarsi bevendo chinotto. Ma appunto, nessuno arrivava a desiderare tanto – chiunque si sarebbe tristemente accontentato di vederla ricoperta da zatteroni con musica zarra e prezzi da denuncia. Pareva una fine nello spirito dei tempi - l’ennesima fabbrica di soldi, messa giù magari con un po’ di stile data la posizione privilegiata.
Macché. Nonostante avessero la strada spianata, vuoi dalla volontà popolare (che a Milano coincide con un esercito di vecchi, asserragliati dietro tapparelle chiuse, che schiumano rabbia contro quasi tutto) vuoi dalla mancanza di opposizioni organizzate, i nostri Jafar – da che sono vivo – non sono riusciti a cavarne fuori alcunché.
Una sorta di piccolo Vietnam delle amministrazione destrorse meneghine. E il paragone non è a caso: la Darsena infatti si presenta da oltre dieci anni come una palude di sterpaglie e rifiuti, nel quale chiunque abbia un minimo di fantasia non può che immaginarsi animali orribili e vendicativi sguazzarvici dentro (più probabilmente non si vedono o perché già morti o perché gli animali orribili non sono mica scemi e preferiscono girare altrove).
Per anni senza un pur misero progetto, il nostro personalissimo Loch Ness aveva comunque una sua discutibile vita: da un lato, dove la riva è bassa, ospitava un parcheggio infido e selvaggio e, il sabato, la gloriosa Fiera di Senigallia, dove i 15enni di un tempo prendevano le misure con quello che credevano il mondo della vera delinquenza – tra bici rubate, bong di ogni forma e colore, retate occasionali, la tua compagna che rubava gli orecchini e tu che ti chiedevi se il Che avesse personalmente autorizzato tutti i magliettari a venderlo di fianco a Marilyn Manson e le Spice Girls.
Sull’altra riva, ai piedi del terrapieno sul quale sferragliano tuttora i tram e le biciclette che qualcuno ruberà, sopravviveva nessuno sapeva come l’Approdo Caronte – anche noto come la Rattaia, per motivi a questo punto ovvi.

Aperta parentesi. L’approdo Caronte era una sorta di virus nel sistema, un varco verso un mondo più libero, approssimativo e forse felice. Nato dalla buona volontà di ragazzi che, pulendo per l'appunto la Darsena, l'avevano trovato sotto una montagna di schifo e rimesso in piedi, resisteva senza allaccio elettrico e tantomeno idrico a non più di trenta metri da locali dove una birra costava già sei euro. Invisibile, si nascondeva sotto un muro di oltre tre metri, quel muro dal quale teoricamente qualcuno avrebbe dovuto affacciarsi per ammirare la Darsena e pomiciare con una frase di comodo. Dato che appunto non c’era nulla da ammirare, nessuno si affacciava e pochi ne conoscevano l’esistenza. E dato che per raggiungerlo non c’era altro modo che scavalcare il muretto e calarsi giù da una scala fuori da ogni norma di legge e buon senso, comunque pochi avrebbero avuto il coraggio di conoscerlo veramente. Affrontati quei pioli, venivi accolto da una casetta scassata ma accogliente, da un bar che sembrava uscito da Mad Max 2 e da un tot di cani punk dall’umore variabile. Oltre la struttura, si fa per dire, un generatore teneva in piedi borbottando le speranze riposte nella serata – che, come l’ambiente suggeriva, era appaltata sempre e comunque all’hardcore, di quello dove ci si distrugge sul palco e sotto al palco, e poi ci si scopre le persone più buone del mondo che a fine serata manca solo il saluto del lupetto.
Suonammo lì (vedi foto) e come da manuale fu un concerto hardcore nella forma prima che nella sostanza – con la band prima che rompe la pelle della cassa e la convinzione che il pezzo viene comunque meglio se si urla di più. Finito di suonare, uscivi e avevi davanti il mare – o almeno il mare che ti meritavi. Sopra la tua testa, il mondo che si mette il profumo e che sogna di cambiare macchina. Eri un mutante di Futurama, ma contento. Chiusa parentesi.




Ma arrivarono i cattivi, appunto. E promisero che tutto sarebbe cambiato, che quella palude avrebbe ripreso vita.
O meglio, sarebbe diventato semplicemente un parcheggio più grosso, uno di quelli capace di tramutare l’acqua in asfalto. Uccisero quel poco di vita che era rimasto, uccisero i ratti come noi e come quelli veri, portarono un enorme cartellone pubblicitario - di quelli che oggi usano per pagare i lavori – e lo piantarono in mezzo come un alpinista pianta la bandiera sulla cima. Attorno, un cantiere ogni giorno più immobile – e si capì che avevano sì svuotato la piscina, ma che forse non sarebbe successo più niente. Così andò.
Finché un giorno non si sa se la giustizia o un divino senso del pudore fecero sì che il comune dovesse rispondere di quella vergogna, in cui era ovviamente coinvolto. E quello disse che qualcun altro aveva sbagliato e che tutto sarebbe cambiato - di nuovo. E ancora oggi si convive con una specie di voragine al centro di uno dei pochi quartieri potenzialmente affascinanti della città. L’impressione è che, chi ne è responsabile, passandovi davanti, provi effettivamente vergogna – ma che questa sia offuscata dalla gioia che hanno nel sapere che i ratti non hanno più nemmeno una rattaia dove andare.

domenica 6 marzo 2011

ALLA DERIVA: Parchi e giardini 2/2: Il Parco Nudo.



L’obiettivo principale di città come Milano è far credere che sotto di essa non sia mai esistito niente, che non vi fossero prati, lombrichi, grilli, funghi, fiumi, terra.
Piuttosto, una sorta di terreno neutro, di piattaforma appositamente progettata per ospitare aree urbane. Il verde che si incontra in giro dà l’impressione di esser stato calato dall’alto con una gru, come grossi vasi d’asfalto in cui far crescere alberelli imbalsamati. Certo non si pensa che Milano si sia estesa attorno ai giardinetti sotto casa tua, che l’urbanizzazione li abbia schivati per pietà.
Nessuno di noi è una città, ma chi lo dovesse diventare sarebbe probabilmente molto fiero di aver definitivamente annientato la natura, i lombrichi, i grilli, la terra sotto le scarpe che poi sporchi che ho pulito tutto il giorno, le formiche.
E infatti così si sente Milano. Libera dai fastidi del mondo come ci è stato dato.
Per questo motivo, le è assolutamente inconcepibile qualsiasi sorta di cambiamento climatico e meteorologico.
Il cielo, che in più della terra ha il vantaggio di non essere edificabile, non teme piani regolatori o tardivi capitalismi.
Il cielo si fa i cazzi suoi, e questo a Milano non sta bene. Che piova molto o piova poco, che vi sia il solleone o l’aria di montagna, il freddo sovietico o l’umidità di Satana, il milanese puntualmente si stupisce e tenta in tempi brevissimi di trarre dal proprio stupore degli enunciati parascientifici.
Vivo in questa città da 28 anni e, se solo avessi tenuto un quadernetto con qualche appunto, probabilmente mi sarei accorto che in febbraio fa sempre un freddo del cazzo, che a giugno piove parecchio, che ogni tanto nevica un po’ a caso e con quella neve che non ci fai le palle, che prima o poi arriva una settimana di caldo orribile.
Ognuno di questi eventi giunge invece al milanese come fosse irripetibile, con un fragore esasperato, e subito lo si classifica o nel novero dei sintomi di un’imminente apocalisse climatica (gente al bancone del bar che con viso preoccupato e hollywoodiano dice “comunque non è normale che faccia questo caldo”) oppure come una sorta di miracolo una tantum. In quest’ultima è categoria si colloca la Grande Nevicata.

La grande nevicata viene ogni paio d’anni, ma nessuno sarebbe pronto a giurarlo, perché ognuna d’esse può vantare ricordi dai contorni mitici e difficilmente collocabili nel tempo. Si parla di neve seria, quella che blocca tutto e che scatena battaglie clamorose davanti alle scuole, la neve di un Dio che cerca di dirti qualcosa. In una delle grandi nevicate milanesi a cui ho preso parte, o forse in tutte, si andò al Parco Lambro a fare gare di bob giù da una collina, che assomigliavano più a una puntata di Jackass dato che quasi tutti erano completamente ubriachi.
Ecco, il Parco Lambro, quello sì, dà l’idea di un pezzo di mondo schivato dalla città, dribblato per rispetto. Entrateci da Via Feltre, possibilmente di notte, possibilmente non dopo aver visto filmacci sui serial killer che girano per i parchi a caso, e cercate di sfruttare gli alberi e le pendenze – due cose con cui a Milano non si ha mai a che fare. Sugli alberi potete arrampicarvi (io non riesco), per il pendio potete fare i rotoloni o aspettare che nevichi tenendo il bob in mano. Potrebbero volerci un paio d’anni o forse no, ma quando accadrà sarà bellissimo e arriveranno persone gioiose e forse un po’ oblique, convinte che Milano sia sotto un incantesimo.

Quello che il Parco Lambro può offrirvi senza manto bianco vale comunque una visita, possibilmente in una notte ispirata, nebbiosa o disperata (quella nel video era un po' di tutte e tre). Fu il teatro dello storico, discusso, incazzatissimo Festival del Proletariato Giovanile nel 1976, quattro giorni organizzati da Re Nudo, duecentomila persone, mille casini. Oggi, gente che lo attraversa in cuffia pensando sto dimagrendo sto dimagrendo, animali feroci che non si fanno vedere e luci aliene che ti fanno credere che a Milano di notte ci siano dozzine di lune.
Anche quando non ce n’è neanche una.