martedì 28 maggio 2013

Storia delle mie orecchie.


Prima dell’avvento degli specchi, era facile sentirsi dire “ehi, hai le orecchie”. 
Quali che siano gli sforzi per, non c’è uomo che possa vedere le proprie orecchie; ognuno sarà costretto, vita natural durante, a fidarsi degli altri, del tatto, dei riflessi. Nessun’altra parte del corpo ci è parimenti celata, se persino del naso possiamo avere una parziale esperienza visiva diretta. 
Naturale quindi che il rapporto con esse sia quello che si ha comunemente con gli accessori – cui si richiede affidabilità e prestazioni, ricambiate da affetto e incitazioni quando necessario.  
Porto le stesse orecchie da trent’anni e, arrivato a questo punto, mi è sembrato doveroso tracciare sommariamente una storia del nostro rapporto, della fiducia reciproca, dei giorni bui e delle battaglie vinte. 

Eccezion fatta per chi riesce a muoverle, i primi anni con le proprie orecchie non fanno di norma registrare eventi di una qualche rilevanza: le sfide cominciano più che altro con l’ingresso in società. L’asilo materno ci pone infatti davanti a una moltitudine di orecchie, e da subito sembra dirci spera di averle uguali agli altri. Nonostante la forma di qualsiasi orecchio abbia qualcosa di oscuro e inspiegabile, i bambini sono abili e lesti nell’individuare quelle oltremodo aliene, più comunemente note come orecchie a sventola. Fino all’adolescenza – compresa, nei casi limite – ci è fatto credere che le orecchie a sventola siano un ostacolo concreto a una vita sociale normale. Gli adulti partivano da lì per introdurci alla ginnastica della discriminazione, una pratica più avanti tristemente condita da mille altri ugualmente vani argomenti. A detta degli altri, le mie orecchie sembravano in regola. 

Procede liscio perciò il primo ciclo di studi, alla fine del quale si scopre la possibilità del genere femminile di un’ulteriore customizzazione – che consiste banalmente nel praticarvi un buco e appenderci qualcosa. Un’esclusiva che decade pochi anni più tardi, quando, grazie a Maradona, l’Italia si dichiara possibilista circa il fatto che anche i maschi possano fare altrettanto. 
Affascinato dall’opzione, a sette anni circa, mi documento a proposito, ma vuoi per la lontananza della mia famiglia dall’immaginario di Maradona vuoi per la mia paura delle cose-che-ti-pungono, rinuncio. Nel frattempo comincio a sperimentare le prime significative esperienze uditive, tra le quali si distinguono Past Masters dei Beatles e il rumore del motore del primo aereo su cui sono salito – incredibilmente più fragoroso di tutti quelli presi dopo. 

Le prime immersioni in mari di vacanza con genitore divorziato mi introducono invece alla pratica della compensazione, un rimedio popolare (che consiste nel chiudersi il naso e soffiare forte finché non si sente stap) a delle complesse leggi fisiche che più tardi non avrei comunque veramente capito. 
A dodici anni sbaglio manovra su un fondo sabbioso sotto diversi metri d’acqua e mi ritrovo a sanguinare per due settimane con conseguente annullamento di mia partecipazione alla corrida di un comunissimo villaggio vacanze, in cui avevo deciso di proporre un numero comico con esibizione canora finale di Keep Yourself Alive dei Queen (profondamente convinto che gli animatori avrebbero trovato la versione “solo base” del pezzo). Negli anni seguenti si cerca di riparare all’incidente, che aveva decisamente incrinato il rapporto tra me e le mie orecchie, promettendosi vicendevolmente rispetto e pazienza. 

A quindici anni, io e loro entriamo per la prima volta in una sala prove: il colpo di fulmine è funestato dai colpi di rullante, ai quali le mie orecchie reagiscono ordinando agli occhi di chiudersi a tempo (un meccanismo che rende perlomeno complicato suonare un pezzo dall’inizio alla fine). Con l’abitudine si riesce pian piano a eliminare il problema, ma ancora oggi, nei giorni no, le mie orecchie mi ricordano quel giorno oscurandomi il mondo a intermittenza. 
A diciassette anni vado a un concerto dei Motorhead e, nonostante la mia abbondante dieta di decibel,  vengo sopraffatto e tappo i padiglioni. 
A diciannove anni posso finalmente ascoltare la musica in macchina e lo faccio alzando finché non si sentono più gli abbassa di quelli dietro. 
A vent’anni le mie orecchie cominciano a fischiare e lo fanno per tre lunghi giorni, durante i quali visito dottori che mi fanno sentire dell’elettronica minimal per capire se ho qualcosa che non va. 
Ma il fischio passa com’era venuto e neanche un anno più tardi sono a un rave a vedere tipi tedeschi ballare molto meglio di me con la testa infilata nei coni dell’impianto. Li trovo bellissimi, e comincio a pensare che molte cose bellissime sono anche stupide. 

Negli anni seguenti cerco lettori cd portatili che abbiano un volume decente, nell’inconclusa lotta sui decibel che oggi ancora divide i condomini, i quartieri, le città – vietando festival e mandando forze dell’ordine contro onde invisibili. Persino gli apparecchi per la riproduzione privata se non intima, cominciano a mostrare i segni dell’orrenda repressione, quale ad esempio la tetra opzione per il limite volume della Comunità Europea che si insidia in telefonini e lettori mp3 (chi l’ha attivata di sua sponte parli ORA). 
L’ultimo significativo evento sonoro risale però a un paio di anni fa, quando, allo Zoo di Berlino, un leone, giustamente sfiancato dal servizio fotografico di un dodicenne+smartphone, ha deciso di ruggire come il leone dei film. Un rumore assordante, capace di scaraventare a terra dodicenne+smartphone e di far fuggire tutti gli astanti verso la zona giraffe, dove obiettivamente non può succedere granché. Io invece sono rimasto lì, dopo tanti anni di nuovo stupito da un suono e grato alle mie orecchie, che si sono rivelate anche sensori di animali feroci o semplicemente incazzati – forse la prima funzione per cui qualcuno ce le ha montate ai lati della testa.

lunedì 20 maggio 2013

La vertiginosa ascesa dell'elicottero sull'isola di Sicherheit


La vertiginosa ascesa dell’elicottero nella piccola repubblica di Sicherheit fu l’effetto di un imprevedibile concatenarsi di eventi che nessuno più sull’isola osa ricordare. 
E chi anche ne porta dentro le ferite, non riuscirebbe comunque a insinuare il dubbio che allora, dopo le tragedie del febbraio del 98, fosse possibile percorrere altre strade.
Chi l’avesse anche solo pensato non avrebbe comunque il coraggio di dirlo nemmeno al suo amico più caro: il divieto di discutere e dissertare circa qualsiasi avvenimento del passato è ormai interiorizzato dalla cultura locale, che ha placidamente smesso di guardarsi indietro, nella sicurezza che il presente sia indiscutibilmente l’unico presente possibile. Quello che altrove può sembrare poco più che un atteggiamento o una disposizione d’animo, ebbe e ha tuttora nella piccola repubblica al largo delle coste francesi il carattere di una vera e propria legge – poi sedimentatasi nella cifra teoretica della cultura locale. 
L’Articolo 88 (“è fatto divieto nel pubblico come nel privato di dissertare, discutere o semplicemente citare, per sostenere argomenti o teorie, avvenimenti di qualsivoglia genere verificatisi all’interno del territorio di Sicherheit nei mesi precedenti all’ultimo maggio, assumendo il 12 dello stesso come primo giorno del nuovo corso. Sono tollerate eccezioni nelle due successive settimane del mese di Maggio - dette di interregno - per motivi organizzativi e amministrativi”) che fu promulgato per porre fine al periodo noto come Grande Stallo. Il Grande Stallo fu la diretta conseguenza di una stagione di eccezionale discussione politica in parlamento e non solo, circa le responsabilità delle insurrezioni dei panificatori, avvenute verso la fine del secolo scorso, e della loro successiva e violenta repressione. 
Le posizioni inconciliabili delle due ali del parlamento congelarono per oltre quattromila giorni l’attività di governo e legislativa del paese. A dirla tutta, dopo i primi sei anni di liti accese – nei palazzi di governo come nei bar – si diffuse la pratica del Muso, che consisteva nel limitare al massimo ogni conversazione per non correre il rischio di incappare nella madre di tutte le diatribe.
Il Muso bloccò il paese per i successivi quattro anni finché, vuoi per reale bisogno vuoi per la noia insopportabile di quel silenzio prudente che faceva da sostrato a ogni momento della vita sociale e persino privata dei cittadini di Sicherheit, non venne l’idea di vietare severamente ogni discussione su eventi che non avessero avuto luogo nell’anno corrente. Quella che altrove sarebbe parsa una richiesta inaccettabile quanto pericolosa, fu invece accolta sull’isola con gioia dalla popolazione – che da un giorno all’altro ricominciò a parlare contenta del tempo e della partita del giorno prima. In pochi anni, l’editto – o forse l’innominabile ricordo del Grande Stallo – cambiarono volto all’isola e la dittatura del “qui e ora” inaugurò una nuova era di cambiamenti rapidissimi e incontrollabili. Leggi e ordinanze di qualsiasi sorta nascevano e morivano nel giro di pochi giorni, figli di sondaggi altrettanto celeri e di singoli accadimenti che dettavano l’agenda politica come una torre di controllo che cercasse di far atterrare un pilota improvvisato.

Nel 1997 non cadde una singola goccia di pioggia su Sicherheit. Altrove il fatto si sarebbe meritato l’epiteto di eccezionale siccità (dato anche il regolare metabolismo del cielo sopra l’isola) nel senso insomma proprio e letterale di un’eccezione, capace giusto di mandare in malora gli agricoltori e di mettere in scacco i metereopatici. Su Sicherheit, il secco testardo venne invece accolto come un dato assoluto – come se qualcuno avesse spostato l’isola latitudinalmente. La reazione fu al solito urgente e categorica: furono proibite le zuppe, le persone sposate dovevano far la doccia insieme e gli impianti di desalinizzazione rovinarono la costa. Nessuno sembrava ricordare le piogge torrenziali che l’anno prima avevano fatto gonfiare come uno stomaco la falda acquifera che si spalmava sotto alla capitale. 
Quando finalmente il cielo si sbloccò, nel primo pomeriggio del 12 febbraio 1998, cominciarono i problemi. Che, va detto, ingigantirono con una velocità non attribuibile interamente all’incoscienza di Sicherheit.

Il fato, inteso come quell’ordine di altrimenti incomprensibili tranelli che fa crollare gli imperi e rompere i vasi in cucina, approfittò oltremodo della leggerezza di Kobyan Malve  - programmatore col vizio del tenere in ordine e nei momenti particolarmente tristi e in quelli stabilmente felici. E forse solo Kobyan potrebbe testimoniare di quale umore fosse quando decise di buttare giù dal cesso una buona dozzina di piccoli dinosauri di materiale indefinito ma spugnoideo che promettono di gonfiarsi a dismisura una volta a contatto con l’acqua. La delusione sperimentata da chiunque abbia investito su di loro in tenera età, la penosa mutazione che li fa crescere di un centimetro appena, era forse nota a Kobyan che li gettò nel cesso e tirò l’acqua senza neanche dargli il tempo di gonfiarsi di quel poco. Se solo Kobyan – o chiunque di noi  - avesse potuto scivolare insieme a loro nei condotti fognari, dando a quei dinosauri il tempo che nessun bambino diede mai, avrebbe visto la spugna espandersi come latte sulle piastrelle, fino a raggiungere dimensioni effettivamente giurassiche. Il 12 febbraio 1998 le fogne di Sicherheit erano ostruite da stegosauri e triceratopi pregni d’acqua e sempre più vicini al loro limite di assorbimento.

A qualche decina di chilometri dalla casa di Kobyan, oltre un nugolo di cantieri e viadotti, si distingue tra palazzi anneriti dalle fabbriche di liquirizia, il palazzetto dello sport intitolato a Mari Fallum – l’unico atleta dell’isola capace di guadagnarsi un’inquadratura a tutto schermo in mondovisione durante le Olimpiadi del 1970 – capace di ospitare circa ventimila persone e location ideale (forse l’unica su tutto il territorio di Sichereheit) per gli appuntamenti musicali, politici e religiosi più importanti. La sera del 13 febbraio 1998 i seggiolini rossi del palazzetto sarebbero stati messi alla prova dal vasto ed eterogeneo pubblico di Sovyana – la popstar che dominava le classifiche da alcuni mesi e che per pochi altri sarebbe rimasta nella memoria di migliaia di persone. Alla fine degli anni 90 infatti, gli effetti dell’articolo 88 sull’industria discografica si facevano sentire: il ciclo di ogni artista non poteva estendersi oltre i 12 mesi (che scadevano il 16 di aprile in ricordo, ovviamente, di nulla) previsti dalla legge, e il termine obbligava le etichette discografiche a cercare materiale e visi capaci di emozionare, appassionare e quindi stancare l’audience nei tempi previsti. Sovyana era a tal proposito forse l’esperimento più riuscito del decennio: nessuno in dieci mesi era riuscito a mettere in fila tre sold-out al palazzetto Fallum. Un dato ancora più impressionante se si pensa che la scintilla del suo successo fu una clamorosa gaffe durante una delle sue prime apparizioni televisive: incalzata da una giornalista in cerca di scoop, Sovyana – di madre russa e nazionalizzata solo pochi anni prima – si limitava a ripetere il copione imposto dai discografici, un prevedibile elenco di posizioni innocue e vitaliste. Caso vuole però che la padronanza ancora limitata della lingua fece cadere in drammatico errore Sovyana circa la sua visione del problema della caccia ai caprioli che popolavano l’entroterra dell’isola. Uno scorretto uso dei pronomi fece del suo proclama generalista in difesa dei suddetti erbivori una sorta di inno allo sterminio degli stessi. La giornalista incredula insistette e trovò quello che non si aspettava, ovvero una conferma – che Sovyana diede ragionando tra sé e sé e ricordando la sua infanzia a Liekigrad, dove la caccia è cosa buona e giusta. La disperazione del suo agente e della sua etichetta discografica durò poco: nemmeno due giorni dopo la popolazione dell’isola, che segretamente non ne poteva più di dover rinunciare a tutta una serie di tradizioni alimentari che comprendevano il capriolo, incoronò Sovyana regina delle classifiche e della sincerità. Da cantante zuccherina, burrosa e conciliante, l’immagine della giovane popstar virò verso soluzioni vagamente militaresche e su un look severo e mascolino – mentre i successivi cinque singoli verterono principalmente sulla giustezza di ogni prevaricazione nei confronti del mondo animale, definito nelle sue canzoni “l’amico di cui non ti puoi fidare”. Alle sei del pomeriggio del 13 febbraio 1998 la superstrada che collegava la capitale al Palazzetto era una lunga e immobile colonna di lamiere e finestrini appannati, mentre il cielo tornava a farsi umido dopo un anno di fiacca.
L’aeroporto della Capitale, di recente costruzione e di fragili fondamenta, sorgeva a nemmeno cinque km dal terzo piano grigio canguro di Kobyan Malve e a dieci dal palazzetto Fallum. Anche nelle giornate più limpide però, la vicinanza non fruttava alcunché di suggestivo alle vedute dal piccolo balcone dell’appartamento – ma solo un rombo capace di scuotere la tazza di caffè americano di Kobyan, altrimenti escluso da fastidi aeroportuali poiché costantemente incuffiato. A dirigere il timido traffico aereo che interessava l’isola era preposto il Comandante Petrovic, vedovo e avido consumatore di ravioli monoporzione. Dalla prematura scomparsa della moglie Mihaila aveva perso ogni interesse nei confronti di qualsivoglia accadimento, limitandosi a mettere in ordine il cielo sopra di lui. La sua dedizione alla torre di controllo era dunque ciò che per difetto gli rimaneva, e gli scioperi frequenti e partecipati gli scivolavano addosso come il bagnoschiuma primo prezzo che tentava di profumarlo nei suoi meccanici riti lavatori. Caso – inteso come il multiforme e cinico mostro che ci fa sbagliare i destinatari dei messaggini più delicati – volle che proprio il 12 febbraio, mentre i dinosauri si gonfiavano e il cielo tornava a scuotersi sopra Sichereit e l’autostrada si bloccava come un adolescente impacciato di fronte al popolo temporaneo e appassionato di Sovjana, caso volle che proprio quel giorno il personale della torre di controllo entrasse in agitazione – ovvero smettesse di agitarsi e incrociasse le braccia nella hall dell’aeroporto.


Alle sei e trenta del 12 febbraio la pioggia tornò come una regina sull’isola di Sicherheit. Lo stupore di un paese che si credeva ormai consegnato per l’eternità al cielo blu e alla terra secca fu secondo solo al panico di chiunque stesse conducendo un veicolo a motore, a prima vista dimentico delle più elementari regole di guida sul bagnato. Bastarono poche decine di minuti per immobilizzare la capitale, ormai totalmente sprovvista di buon senso e di tombini, giudicati inutili dal governo in assenza di precipitazioni. Liberi dagli argini rimossi pochi mesi prima per le nuove direttive sul paesaggio di Sicherheit (che si sentiva ormai provincia desertica e stava perciò drasticamente riadattando architetture e infrastrutture) torrenti e ruscelli si gonfiarono minacciosi. Nel frattempo i dinosauri buttati nello scarico dal deluso Kobyan avevano raggiunto scala 1 a 1 e ormai saturi erano capaci di bloccare il regolare e ora quanto mai abbondante flusso idrico sotterraneo. Fu per la precisione uno stegosauro il responsabile dell’ingorgo fognario che ebbe luogo appena trenta metri sotto all’ingorgo autostradale dedicato alla bella e schietta Sovjana. L’acqua, che tanto merita aveva avuto nel gonfiare lo stegosauro rosa, ora veniva impedita nel suo regolare flusso e tornava quindi impetuosa da dove era venuta, ovvero verso l’aeroporto a est e verso la casa di Kobyan e la periferia della capitale a Ovest.
Fu il flusso orientale quello più catastrofico: l’aeroporto, già piegato dallo sciopero e dal temporale impietoso, venne attaccato anche dal basso - lasciandosi invadere dall’acqua e dai liquami respinti dallo stegosauro. Il Comandante Petrovic, resosi conto di non avere nessuno attorno da comandare, si lanciò verso la radio col fermo e malaugurato intento di dirottare il Boeing da Lisbona in avvicinamento sull’adiacente superstrada, riservandosi di aggiornare poco dopo la polizia stradale per farle bloccare il viadotto per tempo. Ignaro di chi fosse Sovjana, e così del suo concerto e ingorgo dedicatole, diede le coordinate per l’atterraggio di emergenza su strada a Felipe Orteza – mediocre pilota convinto dalla madre hostess a intraprendere la strada della cloche. Un attimo dopo spedì un telex urgente al comando delle volanti di Sicherheit, che in stampatello ordinava di bloccare e sgomberare il tratto d’asfalto interessato in meno di venti minuti. Quindi si sedette, lieto di aver condiviso con altri le responsabilità circa possibili vittime.

Non un solo veicolo fu allontanato dalla superstrada. Una volante raggiunse la coda del serpentone e si sbracciò con i pochi che aveva a tiro ma gli ultimi della fila, che avrebbero forse potuto trovare salvezza con un’ardita retromarcia, preferirono non rischiare di perdere la priorità acquisita lasciando che angoli ameni del cervello si occupassero di fornire supporto alla loro fermezza – dalla tesi del falso allarme al sacrificio per Sovjana.
Il comandante Petrovic, una volta mandato il telex, decise che non era più affar suo – e che il suo mestiere era di occuparsi solo di far atterrare gli aerei negli aeroporti, e non altrove.         
Il comando della polizia stradale, in gran parte occupato a inventare grondaie di fortuna e a coprire la nuovissima flotta cabrio nel parcheggio, tentò più o meno incessantemente di richiamare il Petrovic. Quest’ultimo, per non rischiare oltre e per sfuggire ai telefoni della torre di controllo che tentavano di farlo rinsavire, decise di unirsi allo sciopero e si confuse nella folla in agitazione nella hall – che nel frattempo si era trasferita al piano alto reparto riviste internazionali per sfuggire all’acqua che dominava l’ingresso dell’aeroporto.

Il bilancio fu durissimo. Morirono tutti e chi non morì lo fece per testardaggine. Complice l’oscurità, il velivolo scambiò le luci di posizione delle macchine sempre accese per una pista d’atterraggio ipertrofica. Solo a poche centinaia di metri dal suolo, Felipe Orteza si accorse che si trattava di una banale coda, di quelle in cui incappava con la madre all’uscita dai centri commerciali il sabato pomeriggio, e decise che non era il caso di fare l’eroe. Tentò quindi un atterraggio regolare, pur su fondo di lamiere non regolamentare. Sovjana suonò lo stesso, davanti a un palazzetto mezzo vuoto – e fu l’inizio del suo fisiologico declino.
Il fato, inteso come quel domino di piatti lavati e mal accatastati che rovina sul servizio di bicchieri nuovi, era un colpevole troppo evanescente per i titoli dei quotidiani e i pugni stretti dei parenti delle vittime. Altresì, mettere in discussione la legge che aveva lasciato l’acqua libera di fare disastri non avrebbe fatto resuscitare alcuno, se non forse la cerebralità stantia e tardiva dei politici di un tempo. Si cercò quindi un capro più comodo, concreto, lampante.
Il 16 febbraio del 1998 l’isola di Sicherheit vietò gli aeroplani. Li bollò come macchine di morte, mostri antichi destinati a cadere in virtù di un peso comunque superiore a qualsiasi legge fisica nota all’uomo della strada, aquile di lamiera e malaugurio incapaci di orientarsi con qualche goccia di pioggia. L’aeroporto fu chiuso e il personale non ebbe più di che scioperare. Nelle scuole e nei circoli presero piede cineforum dedicati alla effettivamente vasta produzione di film aerocatastrofici. Con successo insperato, in pochi mesi l’aereo sembrò a tutti un errore imperdonabile del progresso – pesante, cieco e assassino.
Ciò detto, la vita commerciale ed economica dell’isola non poteva fare a meno dei contatti col continente, e anche al più integralista dei legislatori era chiaro che il traffico navale non sarebbe bastato a salvare la nazione dall’isolamento. 
Fu così che cominciò la vertiginosa ascesa dell’elicottero sull’isola di Sicherheit.


lunedì 13 maggio 2013

Pulire Casa.


Pulire casa. Si omette l’articolo dando per assunto che a ognuno ne spetti una.

Si dice pulire casa quando la pulisci tu. Quando la puliscono altri si dice pulizie.

La casa va pulita come se nessuno ci stesse vivendo dentro e in modo che qualcuno possa viverci dentro. Perché questa condizione venga rispettata è necessario pulirla diverse ore al giorno, controllando periodicamente gli obiettivi raggiunti da un osservatorio esterno, quale ad esempio il pianerottolo.

L’alternanza di pulizia e controllo rigoroso non soddisferà comunque la norma, naturalmente asintotica. Contemporaneamente ai nostri sforzi, una moltitudine di processi e agenti di verso opposto cercherà infatti di renderli vani.

Tra i più noti, le cose per terra. Le cose per terra si muovono per la casa quando non sei a casa. Se di medie dimensioni è possibile spostarle o evitarle. Se molto piccole si possono schiacciare finché qualcuno non te lo fa notare. Se di grandi dimensioni non sono suscettibili di movimento ma possono nascondere cose per terra di medie e piccoli dimensioni. Se la propria casa ha molte cose per terra, può capitare di sentirsi in colpa. Raccoglierne o spostarne alcune può provocare un senso di sollievo. 
E’ possibile raggruppare grandi quantitativi di cose per terra in grandi scatole ma anch’esse si configureranno presto come cose per terra di grandi o medie dimensioni. E’ altresì possibile buttarne alcune ma spesso, nel raccoglierle, tornano alla mente possibili, imprevisti, futuri utilizzi – e si decide appunto di spostarle, riporle, sistemarle. 
Buttare via tutte le cose per terra, seppur gravoso, è possibile – ma renderà meno ovvio la funzione della casa, predisposta fondamentalmente a custodire cose.

Le parti della casa di minor interesse vengono rapidamente coperte da uno strato grigio comunemente chiamato polvere: prodotto dalle cose stesse, è un indicatore che ci ricorda da quanto tempo non interagiamo con una certa parte dell’abitazione. Da ciò possiamo dedurre che ogni abitazione dovrebbe estendersi per tanto spazio quanto riusciremo effettivamente a frequentare con regolarità. 
Chi ha spazi così ampi da non poter essere coperti con una frequenza che impedisca l’apparire della suddetta, normalmente assume una persona addetta a rimuovere l’indicatore-polvere dagli oggetti, di modo che sembrino effettivamente utili e funzionali all’esistenza di chi li possiede. 
Rimuovendo la polvere si stabilisce infatti una sorta di tregua con l’oggetto, cui viene dedicato un breve pensiero durante l’operazione. Spesso si preferisce spolverare oggetti-schermo per evitare il contatto diretto con l’oggetto abbandonato: è il caso delle mensole delle librerie, che non pretendono promesse e o scuse, e che vengono spolverate in vece dei libri stessi.

Il restante sporco presente nella casa può certo essere causato da una serie di fattori minori noti alla scienza e all’uomo della strada (la terra sotto le suole dopo i giorni di pioggia e le passeggiate per funghi, il sale, lo zucchero, gli stuzzicadenti, il riso soffiato), ma il loro impatto è considerato trascurabile: per giustificare la totalità dello sporco, si ricorre a teorie che spesso assumono i toni del mito o della leggenda – e che semplicemente interpretano paure e ansie della società.  
Una di queste riguarda l’esistenza dei cosiddetti acari, animali dalle caratteristiche mitologiche (invisibili, indistruttibili, dispettosi) che si nutrirebbero delle nostre stesse colpe (la polvere), per poi produrre feci invisibili e velenose nei luoghi che invece frequentiamo con assiduità (il letto, il divano). Non ci sono ad oggi fotografie o alcunché che testimoni l’effettiva esistenza degli acari (anche se la letteratura fantastica ha scelto da tempo di raffigurarli simili a degli animali preistorici) ma una pluralità di prodotti per difendersi dagli stessi è presente oggi sugli scaffali dei supermercati. 
Nel 2002 Todd Sonder, uno scienziato danese, ha provato a stare lontano dalla propria casa per 48 mesi dopo averla dotata di un sistema di monitoraggio video – nella speranza di poter assistere alla crescita incontrollata di una colonia di acari. Con suo sommo disappunto, i quattro anni di riprese sono trascorsi invano: non un solo acaro è stato inquadrato o intercettato, e Todd è rientrato nel suo appartamento con la certezza di essere solo.