martedì 20 ottobre 2009

Musica povera italiana o dell'importanza di non togliere il saluto.

Si dice che andare sul set di un film porno sia un'esperienza
particolarmente deludente.
Che ti tolga anche la più primitiva voglia di vederli. O che ti spinga a cominciare una carriera nel porno (che forse include l'altra opzione).
Per motivi analoghi, la musica leggera (nel senso più ampio e volubile del termine) funziona solo se fatichi a immaginarti quello sul palco a letto con l'influenza, la boule dell'acqua calda e il pigiamone di spugna.
Ma non è solo quella la realtà che viene nascosta.
Poco più in là c'è l'intervallo di un grande liceo, un intervallo in cui nessuno torna in classe - senza che perciò la conversazione abbandoni l'inconsistenza di quella di un comune breve intervallo.
E' il mondo degli addetti ai lavori, infelice locuzione forse di stampo marxista che lascia immaginare taccuini nella tasca alta, berretti d'ordinanza e un gergo incomprensibile ai profani.
Come la maggior parte dei mondi che conosco, quello degli addetti ai lavori della musica leggera sta franando con la velocità di un profitterol sul vostro golf nuovo.
Tanto vale cominciare a togliergli quell'alone di panna con il quale credeva di poter funzionare per sempre.
L'occasione - che lascia strada a mille più fertili discussioni in ambienti più seri del nostro - me la dà la recensione del nuovo disco degli Amari firmata da Michele Wad Caporosso e pubblicata ieri su Rockit (http://www.rockit.it/album/11551/amari-poweri).
Come nei gialli che si compravano all'edicola davanti alla spiaggia, vanno velocemente presentati i personaggi per anche solo cominciare a capirci qualcosa.

Dunque, Rockit è un portale (con relativo cartaceo) che da anni si occupa di musica italiana filtrata. Ovvero, come un colino, non lascia passare le robe grosse e preferisce occuparsi delle briciole.
Con la più o meno precisa volontà di trovare le migliori e farle diventare troppo grosse per il colino. Oltre a ciò, organizza il MIAMI, uno dei più ambiti e riusciti festival indipendenti (da cosa non si è capito, ma tanto vale) della penisola. Anni fa la redazione era nota per stroncature feroci e severità da collegio di danza austriaco.
Poi, man mano che il mondo della musica povera italiana ha cominciato a stringerlesi addosso, è diventata più morbida, accomodante e costruttiva.
Rendendo possibili tante cose belle, tanti concerti, tanti baci - come direbbero loro - e perdendo il quid giornalistico, perché dire sempre la verità mal si accorda con la concordia e col costruir le cose.

Gli Amari sono una band friulana diasporata sul suolo italico che da anni ormai produce e suona pop elettronico, declinabile in altre ottocento definizioni più à la page di questa.
Non si può dire che siano miei amici nel senso di poterli chiamare se hai problemi col pusher o se hai voglia di piangere, ma diamine si è riso e scherzato assieme spesso e nulla mi vieta di dire cose buone di loro se dovessi testimoniare in tribunale. Oltre che a concerti comuni capita di incontrarli nei locali di Milano, dove il nostro mondicciolo si riunisce senza volerlo (perlomeno i più ingenui non lo vorrebbero) per parlare di perchè quella sera non si è in concerto da qualche altra parte. Tipo quei locali alla Scarface dove i mafiosi della zona ci sono sempre tutti, solo che qui di soldi ne girano meno che pochi e pure di quelle altre due cose che fanno girare il mondo.

Michele Wad Caporosso è un redattore di Rockit. Veste come un mio compagno delle medie che nel periodo in cui l'NBA in Italia se la cagava qualcuno si conciava come una comparsa di un video di Nelly, ma una di quelle che non avevano i vestiti della taglia giusta. Wad è così, e giuro che all'inizio non capivo bene da che punto cominciare a prenderlo sul serio. L'ho incontrato mille volte, scambiato saluti, a volte parole intere e concatenate, interviste, pareri, pacche su spalle. Poi, all'ultimo Miami, mi intercettano (o incastrano) per un reading in area respiro di Giorni Migliori, il libro che raccoglie sa Dio quante newsletter di Rockit - quelle che riesci a trovare sinceramente belle solo sei innamorato perso, c'è il sole e hai trovato dei soldi per terra. Sono l'unico pollo caduto nella trappola, ma ho bevuto abbastanza per stare al gioco. Davanti a quindici persone che probabilmente non ascolteranno mai (o mai più) i Ministri in vita loro, comincio a leggere e alla terza frase mi blocco per commentarla.
Dicendo qualcosa tipo, ecco queste sono le cose che non sopporto di Rockit, io vorrei davvero sapere chi cazzo ha scritto una frase del genere. Quindi finisco il (come odio questa parola) reading.
Wad mi ringrazia di aver letto e messo una (pessima) pezza alla loro (pessima) idea di fare un reading. Poi aggiunge: io, l'ho scritta io quella frase. Tranquillo, pacato, come se volesse semplicemente rispondere alla domanda da me rivolta al cielo. Scoprirò poi che è vero e non è vero, che quelle newsletter le scrivono tutti assieme o nessuno o forse coprono una penna nascosta o forse le scrive Faletti per arrotondare.
Ma quella frase mi sa proprio che l'aveva scritta lui, o è come se.
Non ricordo come ho replicato, ma se avessi una Delorean volante forse tornerei indietro a stringergli la mano.
Fosse capitato a me, avrei forse detto io a mia volta - ma più col tono di chi mette in conto di poter cominciare una rissa.
Perché buona educazione vuole che le gaffe non siano smascherate (e gaffe è un sinonimo di verità, in fondo).

Ed eccoci al punto. C'è il nuovo disco degli Amari da recensire. Il che vuol dire, dato il quadro appena tratteggiato, che se è bello converrebbe dire che è molto bello, se è nella norma che è bello e che conferma le buone cose già dette, se fa cagare che è un disco difficile e arriva dopo un po' (presumibilmente ben dopo la recensione e forse mai, ma non lo si dice).
Così sono funzionati gli ultimi due anni di Rockit. Con buona pace delle band, che potevano disporre di una recensione autorevole, amica e comprensiva - spesso con bulimie di aggettivi dettate dalla voglia di nuovi collaboratori di entrare nel giro del volemose bene. Il risultato è stato, in teoria, duecentocinquanta tra dischi e demo da avere assolutamente, in pratica, cinque proposte in due anni capaci di tirare almeno la testa fuori dalla palude degli emergenti.
Tutti contenti? Tutti contenti. Specie chi suona: per qualche fastidioso motivo, anche la più indomabile delle band legge le proprie recensioni come si leggeva la pagella in atrio, analizza frasi sospette come un filologo di professione e soffre, bestemmia e insulta (chi ad alta voce, chi reprimendo) al primo piccolo vento contrario.
Il problema è che qui si è tutta gente che si conosce, che prima o poi sai di incrociare di nuovo sul cammino fatto di pavimenti di circoli arci e asfalto di parcheggio da festa della birra.
E allora, se scrivi su Rockit e non vuoi doverti inventare una faccia per uno a cui hai stroncato il disco, eviti di stroncarlo.
Visto da questa parte, da quella di chi suona, è esattamente quello che vorresti. Non lo vuoi neanche pensare per onestà con te stesso, ma vorresti dire fatelo recensire a qualcuno a cui piace.
Il che è evidentemente l'inizio di un modo di pensare brutto.
Eppure, cazzo, tu su quel disco hai lavorato otto mesi, ci scommetti parte della tua credibilità con chi ti ascolta e con la mamma e il papà che vorrebbero vederti laureato con la toga lunga, e insomma ti chiedi perché cazzo mai deve arrivare qualcuno a romperti le uova nel già misero paniere, per un'impressione avuta dopo - ne sono certo - un ascolto fugace preparandosi a uscire e a cercare di rimorchiare dicendo di fare il giornalista musicale.
Il che è evidentemente l'inizio di un modo di pensare brutto.
Tanto quanto lo è smettere di dire le cose che si pensano per non rendere problematici i saluti da ascensore.
Su questo genere di silenzio si basa molto del peggio che infetta questo paese. Tipo le riunioni di condominio o la mafia, per dirne un paio di quelle grosse.
Io non ho ascoltato il disco degli Amari, non so se è meglio per loro che si sciolgano e mi sento di augurargli ogni bene come me lo auguro per il novanta per cento delle persone che ho conosciuto.
Ugualmente, non vorrei mai leggere simili parole su qualcosa fatto da me.
(Cazzo - consenso del pubblico o meno - certe cose possono insinuarti dubbi grandi almeno come la speranza di aver fatto le scelte giuste).
Ma non si sta parlando di questo, e forse non ne parla neanche quella recensione. Non si parla di quanti la leggeranno, di quanto peserà sulla carriera degli Amari, né di quanti altri dischi si meritavano recensioni anche peggiori. Qui si parla di una persona che ha scelto di distruggere il lavoro di una band che con ogni probabilità incontrerà nei prossimi sei mesi al bancone di un bar.
Lo ha distrutto a gratis (o quasi, considerando quanto son pagati) e si è giocato pacche sulle spalle, sorrisi e una buona parte di tranquillità.
Si sta parlando di un mondo piccolo, di un mondo che si morde la coda anche quando non vorrebbe, eppure non è più piccolo di quello di qualsiasi ufficio, famiglia, scuola, ospedale, tribunale, consiglio comunale, comunità di registi gay-lesbo, ritrovi di teatranti e sette segrete di nerd di ogni razza e colore.
Se il Wad ciascuno di questi mondi - sperando che non siano tutti vestiti come lui - domani dicesse quello che crede di dover dire, l'Italia cambierebbe in un mese più di quanto non sia cambiata in quarant'anni.
Ogni piccolo universo tende all'armonia solo per la sopravvivenza, col risultato che la verità va a farsi fottere - solo che si dice che lo faccia per una buona causa.
E' arrivato il momento di distruggersi con onestà, di non andare più d'accordo, di dire che il re è nudo - quando è nudo come un verme.
E avere l'onestà di continuare a salutarsi.
A quel punto sì che varrà qualcosa salutarsi.

lunedì 12 ottobre 2009

Frammenti dai diari dei Tempi Bui #1

Forse le sole parole sincere sono quelle della fantascienza.
Le nostre sono interessate, compromesse.
Quello che accade non dovrebbe mai essere documentato: mai le foto, mai una parola scritta, mai la tua telecamera idiota che fa cambiare a tutti il tono di voce quando la accendi. Raccontare con la voce, ecco l'unica strada possibile. Perché accade.
Queste parole non accadono.
Provincia piemontese, si vedono i monti e si capisce che le città vere sono tanto lontane da non poter contare su di loro. Si mangia al Valhalla Pub, che non ha neanche il coraggio di giustificarlo quel valhalla, neanche il rischio di venire alle mani con un gestore nazistello.
anzi: schermo volgare con gente volgare che agita il culo a un volume volgare ma non tanto da coprire vociare di famiglia inspiegabile e morbosa seduta davanti a noi, con presumibilmente zio che sfiora il culo di nipotina quindicenne che guarda altrove e cerca fuga via sms. abbiamo lasagne e salamella e patate, dice lei, ma in un posto così ti fidi solo di prodotti che scadono nel 2014, ti fidi delle scatole, della latta e di tutto ciò che non può essere manomesso.
si torna che c'è il locale ancora vuoto, il momento in cui manda più vibrazioni, il momento in cui se lo ascolti capisci tutto ciò che sarà.
E questo sta dicendo la gente non viene qui perché qui si sta bene, la gente viene qui perché non sta bene altrove e qui le è permesso di diventare brutta e deforme senza che ciò comporti il licenziamento.
Qui la gente si deforma, in due parole.

martedì 6 ottobre 2009

Guida al turismo eco-insostenibile: l'orrendo segreto di Ansbach.

ansbach old

C'è quasi sempre un motivo per cui la gente si riunisce.
Non è detto che sia buono, anzi, ma di regola c'è.
Che sia un incidente stradale, una partita di calcio, un po' d'ombra o la scritta now boarding (che, per esempio, non è un buon motivo per stare in piedi mezzora, tanto ti imbarcano lo stesso).
Andando a ritroso, si potrebbe ragionare in modo analogo per qualsiasi insediamento umano - e allora i motivi diventano un fiume (la mia città fa eccezione e infatti non si capisce che cosa sia lì a fare),un golfo, una miniera, un'oasi.
Bene, rovesciando la questione viene da chiedersi se dove non ci sono essere umani c'è sempre qualche buon motivo per cui, o se semplicemente non c'è ancora nessun essere umano, ma arriverà.
Un interessante quanto inquietante contributo a questa inutile riflessione notturna (notturna almeno per chi scrive, anche se in aeroporto devono sempre illuminare tutto a giorno) viene dall'altrimenti inutile cittadina di Ansbach.
Nel senso di quelli che già ci vivono, anche perché non c'è nessun buono motivo per andare ad Ansbach (e questo non c'è bisogno di dimostrarlo) - e mica lo sapevamo.
Una guida addirittura la segnala come punto d'interesse - come se ci fosse ancora qualcosa di interessante nei castelli, nei monumenti di gente a cavallo e nelle residenze di Ottone quattordicesimo bis.

_UNA COSA BUIA NON PUO' ESSERE APERTA

Ansbach, se la incontri all'inizio di una vacanza, la scusi: sai che ci devi passare una sola notte e allora cerchi il bello o almeno il decente a ogni pie' sospinto.
La città è tagliata da un fiume, ma uno di quelli che neanche ti fermi a guardare come sono le acque. Così deve aver fatto il fondatore di Ansbach, perché il rivo è come ignorato dalla città. E viceversa.
Ci mettiamo a cercare un posto dove dormire, pronti a incassare bonari e stupiti sorrisi crucchi che cerchino di indovinare il motivo del perché mai siamo capitati ad Ansbach, tenuto conto che non abbiamo l'aspetto di appassionati di residenze di Ottone Dodicesimo.
Il primo modestissimo albergo a cui attracchiamo ha l'aria di non aspettare neppure quelli che cercano un cesso, nonostante sia colmo di depliant da reception sulle attrazioni della zona (notate: quei depliant sono tanto più numerosi nelle zone in cui non c'è un cazzo da vedere).
Però è pieno: due crucchi si alzano dalla penombra di una sala per le colazioni come se fossimo entrati alle tre di notte (sono le tre di sera, o di notte - per loro) e fanno larghi cenni di diniego.
E' al completo, e lo dicono pure come fossimo degli stronzi a venire ad Ansbach senza prenotare.
Ci manda da uno degli altri quattro alberghi della città spalancando le braccia a dire forse lì qualcosa trovate ma se vi va male sapete che la colpa è solo vostra, sprovveduti. Di nuovo, attraversiamo Ansbach, e anche se ci venisse la voglia di investire qualcuno per vedere cosa si mangia nelle carceri tedesche, non potremmo in alcun modo.
Ansbach è piena ma di gente che non vuol farsi vedere (e investire).
Trovata finalmente la camera - l'albergatore ha la faccia del fattore austriaco o dell'austriaco che stupra la figlia in cantina da dodici anni o dell'austriaco e punto - decidiamo di visitare Ansbach per scoprire cosa la renda così appettibile, segnalata e contemporaneamente vuota.
E' un mercoledì di fine settembre, non chiediamo mica una festa di quartiere o il santo patrono, solo un po' di movimento annacquato da turistame tedesco con gli zoccoli, il pile e le mercedes anni 80 rosse venute dai quattro angoli della Sassonia per essere parcheggiate furoi dalla residenza di Ottone Pio decimo.
Macché.
C'è un silenzio da film horror di bassa lega, di quelli che la sceneggiatura temporeggia per dirti che cosa ci sia effettivamente di sinistro perché effettivamente se lo deve ancora inventare.
I pochi bar e ristoranti aperti ti ricevono rassegnati, come se la città galleggiasse su un destino tristissimo e indicibile (pena l'esclusione dalle guide turistiche).
Che cosa spinge gli Ansbachiani - già detto così sembrano più alieni - a non riunirsi e a non volerne proprio sapere?
Cercando di risponderci arriviamo al fine davanti al chiaccheratissimo parco della residenza di Luigi Ottone ventuno e nello stupore lo troviamo aperto.
Ma anche completamente buio, buio da non vedersi le mani.
Il parco - residenza inclusa - sorge nel centro di Ansbach e per come si dispongono le case attorno ad esso sembrerebbe essere, in ultima analisi, l'anima stessa di Ansbach.
Ma qualcosa non va in una reggia di Versailles aperta di notte e drasticamente non illuminata. Non esistono cose aperte e buie, penso.
Mentre temporeggiamo sul baratro verde di Ansbach, incrociamo un Ansbachiano in movimento.
Che sia indigeno lo dice il fatto che il passante si infili con sicurezza nel buio giardino, scomparendo dopo pochi metri al nostro sguardo.
Ehi, c'è vita oltre il cancello.
E ci buttiamo anche noi cercando di capire la ratio che tiene quel parco aperto e buio rispetto - che so - a un sempione chiuso e illuminato.
I serial killer previsti dalla componente femminile della compagnia ci danno buca ma tutto continua a sembrare una sorta di set di Silent Hill, ivi compreso il biergarten della villa - chiuso e senza tracce di una recente attività nonostante
1. ci sia bel tempo
2. mi risulta che i tedeschi bevano birra
3. se non bevono birra all'aperto in questa stagione non capisco quando, dato che tra un mese ci sarà la neve ai citofoni
4. il biergarten e bar annesso non sembrano lasciare immaginare un uso recente ma sono tutt'altro che abbandonati - come se fosse tutto tenuto in ordine per Ottone tredicesimo.
Poi, proprio quando il mistero si stava pericolosamente mischiando al sospetto che forse ad Ansbach non c'è semplicemente un cazzo da fare (asserzione comunque sempre vera), l'orrenda scoperta.

_IL CINEMA DELL'ORRORE


In una delle piazze centrali di Ansbach, a fianco del fiume, dietro al parco di cui sopra e di fronte al municipio o chi per esso, sorge un cinema.
Un edificio di un certo pregio, con un taglio architettonico un po' da Manhattan anni settanta, vetrate ampie sui tre lati, chiaramente lontano dallo stile crucco degli altri edifici della piazza ma non burino, né fastidiosamente modernista - forse giusto un po' pretenzioso per la nostra idea di Ansbachiano medio.
Come per il biergarten di cui sopra, continua a valere la strana regola per la quale il mercoledì gli esercizi di Ansbach atti al riunirsi degli uomini non siano aperti (e sì che il mercoledì il cinema costa pure meno).
Nessuna traccia del perché sia chiuso, neppure un misero cartello, nessun torniamo subito ma anzi una sfilza di locandine che lo fanno sembrare un comune cinema di fronte al quale stai passando ubriaco alle quattro di notte.
Stupiti quanto oramai annoiati dall'insulsa gestione dei servizi ansbachiani, alziamo gli occhi al cielo e incrociamo la luce di un lampione.
E là, nell'angolo retto dove il palo fa il suo giro per fare effettivamente pendere il lampadone, non possiamo fare a meno di notare un ragno di quelli brutti, ma brutti di quelli che se anche non hai paura dei ragni riconosci che quello sì, è ben brutto.
I ragni si dividono in ragni gambalunga - quelli col busto che è la capocchia di uno spillo e le gambe esili che le puoi staccare ad una ad una - in ragni stupidi - quelli che trovi ogni tanto a casa e sei pronto a scommettere che nessun entomologo ci ha mai sprecato un pomeriggio - in ragni brutti - quelli che dici quanto cazzo è grosso e brutto quel ragno pur sapendo che esistono in un'altra parte del mondo ragni infinitamente più grossi però cazzo tu vivi nell'altra parte del mondo apposta e quindi quello che hai davanti è già sufficientemente grosso e brutto - e ragni infinitamente più grossi, per l'appunto - quelli grandi come una polpetta, pelosi e che l'unico modo che hanno di arrivare in Italia è l'essere portati a una cazzo di trasmissione condotta da Antonella Clerici in cui qualcuno se li fa camminare addosso.
Il ragno che avevamo davanti era della categoria tre, quelli brutti.
Corpo atletico, busto incazzato e della forma che disneyanamente ti comunica ok questo è uno dei cattivi, ragnatela ampia e già piena di vittime.
Siamo ancora lì come scemi a cercare di documentare con la macchina fotografica (col tipico risultato di quelle foto insulse che sei costretto a dire a chi le guarda la foto non rende, ma dovevi vederlo dal vero) quel ragnone venuto a rompere apparentemente senza un perché il nulla di Ansbach, quando da dietro un mezzo urletto lascia a intendere che non è il solo.
Sul lampione a fianco, altri tre ragni della categoria tre - grandi quanto il primo se non di più, e nessuno vuole metterli a fianco per un confronto all'americana - inghiottono mosche e sputano tela come fosse l'unica cosa da fare ad Ansbach.
Due rondini non fanno primavera, e per un po' cerchiamo improbabili connessioni tra la luce e i ragni - ma quelle non erano le falene? - immaginandoci su tutti i lampioni di Ansbach dei cristi del genere e capendo perciò perche la gente preferisce l'oscurità.
Ma la realtà è ben più terrificante.
I nostri occhi scendono dal lampione e finiscono sulle buie transenne che delimitano lo spiazzo davanti al cinema: tutto è spudoratamente ricoperto di ragni - piccoli, piccolissimi, grandi, grandissimi e con una componente di pesi medi che rendono lo spettacolo complessivamente spaventoso.
Il primo pensiero non è un pensiero ma un ritrarsi imprecando, il secondo è chiedersi dove sia la regina madre, il terzo chiedersi se tutto ciò abbia a che fare con Ansbach e la sua immobilità.
Come direbbe un pessimo copywriter di film di serie B, l'orrore continua: dalla balaustra arriviamo al fianco sinistro (è il caso di dirlo) del cinema, dove corre un muretto affacciato sul fiume.
Proprio in quel momento ci viene incontro una sparuta famigliola di non ansbachiani - chiaramente riconoscibile come tali poiché camminano lasciando correre la mano sulle transenne, ignari di cosa brulichi sotto. Non riusciamo ad avvisarli o forse non vogliamo, nella speranza che l'oscena stirpe li risparmi.
Finalmente stimolati da Ansbach, tentiamo la circumnavigazione del cinema per capire se è da lì che si diffonde l'orrore (non sono un paio di ragnetti, sono tot di centinaia di centinaia di ragni grossi e brutti e sessualmente attivi: non userei la parola orrore altrimenti).
Una porta laterale del cinema offre nuove e più inquietanti notizie sull'influenza della colonia sulla vita degli ansbachiani: le ragnatele e una dozzina buona di ragni grossi come una pizzetta vi pendono davanti, alloggiati in una trama di ragnatele talmente fitta da lasciare a intendere che quella porta non viene aperta da tot giorni. E proprio mentre a debita distanza cerchiamo di capire quale sia l'epicentro e cominciamo discussioni tipo quelle al bar assediato in Uccelli di Hitchcock, una figura umana sgattaiola nei corridoi del cinema - che in virtù delle sue pareti di vetro nulla può nascondere.
Quindi qualcuno almeno cerca di resistere.
Attraversiamo il fiume dopo aver ammirato un'ultima volta quel tetris di ragni che si dipana giù fino alle rive.

_RINASCITA, ALCOLISMO E BANDA FRATELLI


Passato il ponte siamo già nella Ansbach povera o perlomeno quella a cui meno interessa farsi vedere in tiro - più o meno dove ai tempi di Ottone Tullio quarto dovevano abitare i contadini - e cerchiamo un bar senza rinunciare a controllare ogni lampione, semaforo, idrante.
Ma nella Ansbach che non conta non ci sono ragni.
Neanche esseri umani, a dirla tutta. Una desolazione speciale avvolge l'aldiqua del fiume, e la mancanza di mammiferi pare più l'effetto che la causa.
In uno spiazzo d'asfalto dalla forma casuale che nessuno oserebbe mai chiamare piazza, svettano tre prefabbricati alti poco più di un'edicola che sintetizzano la sostanziale sconfitta degli Ansbachiani di fronte alla minaccia a otto zampe e a chissà quali altre.
Alle nostre spalle, una videoteca - antico esercizio commerciale che per una cifra spropositata ti permetteva di vedere un film per una sera e di dimenticartelo a casa per molte altre.
Da notare che la presente è di quelle nate dopo Blockbuster, un emulo tanto più penoso per l'esser nato in anni in cui neanche lo scemo del villaggio avrebbe investito sui film a nolo.
Dividete l'incasso medio di una videoteca oggi per la sfiga degli abitanti di Ansbach misurata in uova di ragno e vi renderete conto di quanto triste potesse essere, con le vetrine affollate di cartonati di film horror improponibili, di quelli che il cinema lo saltano - per grazia di dio - a pie' pari.
Poco più avanti, un casotto ravvivato da un neon verde segnala la presenza di un tatuatore.
Nonostante la notte lo renda lynchiano oltre ogni misura, sembra uno di quei posti in cui Bart e Milhouse andrebbero a farsi un tatuaggio durante una bigiata.
Girando ancora gli occhi in questa deprimente Stonhenge, superato il blu di un benzinaio sullo sfondo uscito anch'esso da Mulholland drive, troviamo un ultimo container abitato - e per quello che i vetri opachi concedono agli occhi, pare trattarsi di una birreria.
Tutto sembra dire stai alla larga, ma per stasera abbiamo già indietreggiato abbastanza.
Dentro, un salottino da rifugio di montagna impregnato di fumo come una casa libera con gli amici a quattordici anni.
Impossibile, anche solo a qualche giorno di distanza, ricostruire fedelmente gli avventori del bar e la proprietaria.
Per quello che mi posso ricordare, dovevano avere tutti una benda su un occhio, la barba lunga da nostromi alcolizzati e dietro al bancone giuro c'era la mamma della Banda Fratelli.
La tentazione di chiedere delucidazioni sulle cose che succedono sui lampioni e non solo di Ansbach è forte, ma 1) non so come si dice ragno in tedesco (spinnen, ma lo scopro ora), 2) non sembra il caso di girare il coltello nella proverbiale piaga.
La mamma della Banda Fratelli mi passa la birra e mi risponde con gli occhi a tutto quanto.
Non c'è nessun buon motivo per riunirsi qui - a meno che non si abbiano problemi con l'alcol.
Ma ci sono ottimi motivi per non riunirsi là fuori, dove ogni carezza sarebbe scambiata per un ragno sulla schiena.

_proposito

Domani scrivo alla Lonely Planet: se proprio devono mettere Ansbach sulla loro cazzo di guida, che ce la mettano per quello che davvero merita. Fuoco ai castelli e alle statue equine, liberiamo le città prigioniere del loro passato, del loro vecchiume da soffitta, dei loro punti panoramici, delle case dove una notte ha dormito X, del cimitero dove è sepolto Y, dei giardini all'inglese su cui nessuno correrà.
Andiamo ad Ansbach per i ragni, e forse la gente tornerà per le strade.

_p.s.

Neanche a volerlo, cercando foto di Ansbach su google:

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200909articoli/47428girata.asp