lunedì 28 dicembre 2009

Le Mie Super8 Sono Migliori dei vostri giorni

Prima di congedarci da questo meraviglioso 1939, eccovi un piccolo omaggio:
Le Mie Notti Sono Migliori Dei Vostri Giorni nella sua primordiale versione del 2005, con il capellone alla voce e il maestro Taramelli al clarinetto. Il video annesso è sempre roba nostra, rigorosamente in super8. Grazie di tutto, ci vediamo a guerra già iniziata.

lunedì 9 novembre 2009

Il Cucciolone e l'Esercito Italiano. Ovvero, del perché non esiste verità senza biscotto.

Forse non avevo capito io. Quando ci fu detto che sarebbero arrivati i militari nelle città, tirai fuori dall’armadio quegli scampoli d’indignazione che ancora non avevo usato per altre occasioni e per due mesi furono conati di rabbia e anatemi.
Ma forse, appunto, non avevo capito io.
Li incontrai per la prima volta in piazzale Maciachini, appollaiati attorno a una jeep come liceali tra gli scarabeo, mentre scrutavano l’umanità meticcia e sospetta che fa su e giù per via Imbonati.
E non facevano molto di più, a dirla tutta.
La loro attività prediletta è meglio nota col nome di sparviero.
Funziona che uno cammina in senso opposto agli altri, cercando di toccarli mentre questi sfuggono.
Così facevano loro sui marciapiedi, costringendoti a strisciare lungo le vetrine e i muri taggati, ripuliti, ritaggati e pisciati.
Ma forse appunto sbagliavo io.
Viale Sabotino.
Yuppie randagi in cerca di aperitivo, un tramonto di fine estate che mette tutti d’accordo, gente che si prepara a cambiarsi d’abito.
Attraverso in bici lo scenario, diventandone subito inevitabilmente parte.
Un quadretto rassicurante, una grande tavola calda anni 50 in cui fermarsi a sentire l’aria dei ventilatori sulla faccia. D’un tratto, come uscita dal set di un altro film, irrompe una jeep dell’esercito e, sorpresa, ci sta a pennello.
Tutto intorno è così futile, così inoffensivo e smussato, che neanche un mezzo mimetico pensato per guadare i torrenti coi piranha risulta fuori posto. I due che lo guidano si godono l’aria come me – e non hanno neanche bisogno di chiedersi dove stanno andando. Tutto nel loro sguardo vuoto e ingenuo sembra dire è finita la guerra, dove altro potremmo andare?
Poco importa che non fosse neanche cominciata: per un attimo l’odio verso i ragazzi sfuma in quell’indulgenza che si ha negli ultimi giorni del liceo per i compagni scemi e dannosi.
Ma è solo una sensazione, forse un delirio da overdose di jeep – patologia endemica della padania.
Una seconda e più gustosa opportunità di riconciliazione mi si presenta un mese più tardi durante un diluvio punitivo. E’ un episodio che ha a che fare coi ladri, che non sono quelli che rubano ma quelli che vogliono rubare, possibilmente la notte, possibilmente con un piano, un piano B, delle calzemaglie e un piede di porco.
Quelli che una notte d’ottobre vengono a trovarci hanno di certo voglia di rubare, hanno di certo un piede di porco (di certo, perché se lo sono dimenticati e ora di certo non l’hanno più), difficile dire se avessero un piano.
Ma si può cercare di ricostruirlo.
Allora: la squadra 1 entra nel campo aeronautico militare e ruba tutto quello che può. Ripulito il campo aeronautico la squadra 1 scavalca la rete e raggiunge questo casotto rosso indicato con X sulla mappa. Quando il campo è libero si entra nel casotto, si ripulisce anche quello e si salta sul furgone della squadra 2, che nel frattempo avrà avuto la meglio dei cancelli del parco in cui tutto ciò avverrà.
Questo doveva essere suppergiù il piano.
A ostacolarlo (o favorirlo, non è chiaro), le guardie dell’Idroscalo (d’ora in poi sinonimo dei seguenti aggettivi: sornione, innocuo, inadeguato, accomodante, distratto) e una pioggia di quelle che aspetti che spiova per fare qualsiasi cosa. Ma un piano non puoi farlo aspettare.
Quando viene messo in atto, io ho lasciato da circa venti minuti il casotto rosso indicato con X sulla mappa, lasciandovi dentro le mie chitarre, un amplificatore preso a prestito e un altro di cui avevo finito di pagare le rate da giorni quattro.
Ma non è alla mia strumentazione pignorabile che bisogna prestare attenzione.
Perché il piano ha come suo primo e più sostanzioso obiettivo il campo aeronautico militare, un posto in cui non entrerei neppure per recuperare il pallone.
Questi invece – i ladri, ovvero gente che ha voglia di rubare anche in situazione di conclamata scomodità – ci entrano speranzosi e con quattro bei sacchi da riempire.
Nell’immagino faticosa vita di un ladro, il momento in cui si riempiono i sacchi deve essere uno di quei momenti che ripaga di molti sacrifici. Non mi è chiaro però di cosa si possano riempire i sacchi in un campo aeronautico militare. Medaglie? Microfilm? Granate? Orgoglio in polvere?
La risposta la troviamo a pochi metri dai nostri strumenti (in gran parte miracolosamente indenni da tutto questo rubìo), ed è una risposta surreale, lasciata lì dagli stessi ladri – evidentemente delusi dal bottino.
La risposta è Cuccioloni. Dozzine e dozzine di Cuccioloni. Al campo aeronautico militare hanno scelto di rubare cuccioloni. Il che sottointende un’altra grande verità: al campo aeronautico militare ci sono i cuccioloni. E neanche pochi.
Il cucciolone sembra andare di brutto da quelle parti.
Parentesi, per chi negli ultimi quindici anni fosse stato altrove – in un paese non raggiunto dalla perfida industria dei gelati.
Il Cucciolone è il re dei gelati col biscotto. Il biscotto, sopra e sotto, serve a contenere idealmente lo scioglimento del gelato nel mezzo. Il quale, a sua volta, si divide in tre colori – detti rispettivamente cioccolato, panna (o bianco) e zabaione. Il mondo si può facilmente dividere in persone che cominciano a mangiare il cucciolone dal bianco, da quelli che cominciano dal cioccolato e in persone che non hanno mai mangiato il cucciolone (non risultano a oggi casi di persone che cominciano dal color zabaione).
La vignetta stampata con metodi ignoti sulla superficie del biscotto mette invece d’accordo tutti: nessuno al mondo ha mai riso alle freddure che ti separano dal gelato, di un livello medio che neanche un autore scartato dalla redazione di Paperissima sprint.
Ciononostante, le si legge di rito prima di addentarlo.
Chiusa parentesi.
E fatto sta che.
I nostri militari, i nostri ragazzi, mangiano i cuccioloni – forse più di chiunque altro.
Si incontrano al bar del campo e si leggono l’un l’altro la battuta sul biscotto.
E dopo via, chi si butta sul cioccolato e chi preferisce tenerlo per ultimo – cazzo, esportiamo democrazia mica per nulla. I nostri ragazzi, prima di buttarsi nelle polveri del medio oriente e nelle polveri sottili di Maciachini, non si lasciano tentare dalle facili promesse di libidine dei Magnum, non cadono vittime del fascino qualunquista e revivalista del Mottarello, né si perdono nelle illusioni colonialisti del Solero o nel machismo dei Calippi.
No, i ragazzi chiedono un mondo col biscotto, un mondo in cui sia chiaro cosa c’è sotto e cosa c’è sopra, in cui si capisca dove finisce il cioccolato e dove comincia il bianco.
Questa perlomeno è la migliore delle ipotesi.
La peggiore è la seguente: il barista del campo aeronautico militare, in un momento di rigetto alla Full Metal Jacket, decide clamorosamente di rinnegare il codice d’onore che vorrebbe nei freezer dell’Arma solo gelati virili – e ordina una caterva di Cuccioloni, che viene subito confiscata dal comando e messa sotto chiave per evitare scandali. I ladri si imbattono nel baule galeotto e, credendolo prezioso, ne rubano il contenuto.
Terza ipotesi, che può funzionare anche in accordo con la seconda, è che i ladri siano ghiotti di Cuccioloni – ma ghiotti da preferirli ai diamanti.
Probabilmente, come insegna il Cucciolone, la verità è nel mezzo – cambia solo l’ordine con cui decidi di mangiarla.

domenica 1 novembre 2009

Dobbiamo sbarazzarci di Nonno.

L’orologio per la laurea. La penna, il vestito, la cravatta.
Il mercato dell’eleganza è incredibilmente tenuto su da un branco di genitori aspiranti borghesi o tragicamente borghesi che nelle occasioni speciali investe cifre sproporzionate in accessori che il figlio laureato con lo sputo a Scienze della Comunicazione - e scientificamente stagista per le prossime tre vite – non potrà mai sfoggiare se non alla festa in maschera dei fuoricorso.
Non badare a spese – in quale secolo i mercanti sono riusciti a far diventare quest’espressione tipica dei grandi momenti nell’esistenza di un uomo?
Momenti che comprendono il morire, se non il più importante sicuramente l’ultimo.
E morire costa, anche quando si bada a spese.
Poco meno di un matrimonio, a occhio, forse per l’indubbio risparmio sulle decorazioni delle torte.
Meno noto è invece quanto costi rimanere morti.
L’ho scoperto stasera per contrappasso dantesco.
Ovvero mi avevano rimosso la macchina.
Una curiosa pratica del comune che consiste nel farti credere te l’abbiano rubata.
Il dubbio ti porta quindi a cercare su google rimozioni – che probabilmente ha un sito su freud come terzo risultato – e a telefonare alla signorina delll’ufficio rimozioni, che dopo averti chiesto targa e modello osa un “dove l’aveva parcheggiata?” – domanda da un milione di dollari ogni lunedì mattina.
Capita insomma di ritrovarsi in quegli uffici comunali tappezzati di ordinanze che vanno dall’incombente minaccia del tarlo asiatico ai brillanti progressi del sito dell’anagrafe.
Una parlava appunto di quanto costasse rimanere morti.
L’annuncio, con tono incredibilmente simile a quello dell’ufficio rimozioni, ricordava che nell’anno 2010 saranno eseguite esumazioni dei campi decennali - indecomposti e acattolici.
Ovvero, Nonno sta finendo i buoni del parcheggio.
Nei cimiteri pochi riposano: una buona parte sta lì solo finché qualcuno ha voglia di pagare la stanza (celletta, tecnicamente).
Ma l’annuncio – seppur con modalità e sintassi oscure – dice di più: parla dell’esistenza di due categorie(ulteriori oltre ai semplici morti? Non è chiaro) di trapassati.
Gli indecomposti, espressione che cercando di essere medicale si candida a nuovo splendido titolo di filmaccio zombo, e gli acattolici, termine a dir poco inusitato e presuntuoso che essendo parola del nemico farò mia (salve, sono acattolico. Posso chiederle un caffè?)
E continua: per informazioni e prenotazioni appuntamento con ufficio rinnovo sepolture esumazioni ed estumulazioni, per celletta ossario trentennale chiamare lo 020202.
Un’occasione per farla finita, tra l’altro. Perché come aggiunge subito dopo: richieste di cremazione salme indecomposte – tariffa cremazione 145 euro (di cui 89,32 di cremazione, 46, cassa, 7.92 piastra, 1.81 bolli).
Nonno sta diventando una spesa, non finisce più di morire.
Neanche ha avuto la decenza di decomporsi. E’ un indecomposto, è maledetto.
Chiudiamola qui e cremiamolo che oggi fa anche chic.
Ma 145 euro sono tanti. Alla Lidl una fortuna.
Nonno non si è decomposto e ci vado di mezzo io.
Con tutti i soldi che lo stato e altri ottocento molluschi affini gli avranno succhiato nei tot anni che ha passato al mondo, ancora gliene (anzi me ne) chiedono per disfarsene.
Con l’aggravante della tristissima nota spese – che include 46 euro di cassa (che potrebbe essere la cassa in cui viene cremato – e allora si tratterebbe di legno da fondo cassetto armadio ikea - o forse il recipiente col nonno in polvere dentro. Nel qual caso: avete mai comprato un portacenere da quarantasei euro?), i 7.92 di piastra (per i capelli? Dai cinesi me li taglierebbero anche) e 1.81 di bolli. Bolli? Bolli.
L’acattolico, dice google, è uno scomunicato, un apostata, un battezzato che ha cambiato idea o semplicemente se n’è fatta una.
Dal cartello non è chiaro cosa gli succeda e che rapporto abbia con questo giro di vite e con la decomposizione. Basta non battezzarsi, per non rischiar nulla.
Ma c’è dell’altro. C’è lo sportello per il ritiro ricordi, che solo a dirlo ti viene da vendere l’idea a Gondry. Con richiesta in carta semplice (specifica l’ordinanza), recuperi le cianfrusaglie e gli amuleti che avevi messo accanto a Nonno prima che chiudessero la bara.
E infine, i decomposti.
Il nome continua a far paura, ma implicitamente indica che sono morti senza complicazioni.
E che, volendo, non devi tirar fuori altri soldi: sfrattano Nonno dalla celletta e custodiscono quello che resta nell’attesa che tu vada a prenderlo. Non è chiaro di che tipo di resti si tratti, e non conosco nessuno con una tibia del caro estinto sopra al camino, ma fatto sta che qualcuno te li mette da parte e si fa pagare 93 centesimi al giorno per il parcheggio. Hai tempo trenta giorni per andare a recuperarli, poi finisce tutto nell’ossario comune – luogo di oscura ubicazione che mi immagino (o mi auguro) simile al cratere di un vulcano, profondo da non sentire il rumore del sassolino che cade e possibilmente lontano tot chilometri dall’acquedotto.
Alla luce di tutto ciò, della mia macchina rimossa (non a caso ritirata nel parcheggio comunale per le macchine rimosse di Via Messina, attaccato al Cimitero Monumentale), del ritiro ricordi, dell’esercito degli indecomposti che lotta senza fine con quello dei decomposti, dell’ossario comune e dei bolli sulla cremazione, alla luce di tutto ciò i cinesi che fan sparire i nonni nei container o sadiodove mi risultano ragionevoli, risparmiosi e tutto sommato sinceri.
Ho una famiglia cinese sopra casa mia, di quelle che potresti passarci una vita accanto e riceveresti sempre la stessa gentilezza e la stessa ostinata riservatezza.
Se la passano bene, parcheggiano l’Audi in cortile e dalla faccia sembrano avere meno problemi di me nell’aprire la busta delle spese condominiali.
Poi, la notte, spostano mobili come architetti impazziti. Un continuo, come se non riuscissero a capire dove sta meglio il divano.
Mi piace immaginarmeli alle prese con i cadaveri di molti nonni - di quelli degli amici e dei conoscenti, nonni negli armadi e nelle cassettiere, nelle cassapanche e nelle valigie – darsi da fare per evitar loro cellette e ordinanze comunali, riesumazioni e tumulazioni.
Come dire, almeno la morte non fatecela pagare, evitiamo di annacquare nella burocrazia il dolore, il sollievo e il distacco.
Ci fu un tempo in cui credevo che una parte importante della vita fosse occuparsi di avere una bella morte. Ma il fatto che da un certo punto in poi non si possa evidentemente più curare l’organizzazione del tutto, del come, del dove e del quanto, toglie comunque fascino all’evento.
Quindi, fatemi un funerale alla cinese.
Un baule grosso, l’Amsa che arriva e mi piglia su assieme a un divano sfondato e, quelle dieci persone che contano, salutino dal balcone il camioncino verde che se ne va.

martedì 20 ottobre 2009

Musica povera italiana o dell'importanza di non togliere il saluto.

Si dice che andare sul set di un film porno sia un'esperienza
particolarmente deludente.
Che ti tolga anche la più primitiva voglia di vederli. O che ti spinga a cominciare una carriera nel porno (che forse include l'altra opzione).
Per motivi analoghi, la musica leggera (nel senso più ampio e volubile del termine) funziona solo se fatichi a immaginarti quello sul palco a letto con l'influenza, la boule dell'acqua calda e il pigiamone di spugna.
Ma non è solo quella la realtà che viene nascosta.
Poco più in là c'è l'intervallo di un grande liceo, un intervallo in cui nessuno torna in classe - senza che perciò la conversazione abbandoni l'inconsistenza di quella di un comune breve intervallo.
E' il mondo degli addetti ai lavori, infelice locuzione forse di stampo marxista che lascia immaginare taccuini nella tasca alta, berretti d'ordinanza e un gergo incomprensibile ai profani.
Come la maggior parte dei mondi che conosco, quello degli addetti ai lavori della musica leggera sta franando con la velocità di un profitterol sul vostro golf nuovo.
Tanto vale cominciare a togliergli quell'alone di panna con il quale credeva di poter funzionare per sempre.
L'occasione - che lascia strada a mille più fertili discussioni in ambienti più seri del nostro - me la dà la recensione del nuovo disco degli Amari firmata da Michele Wad Caporosso e pubblicata ieri su Rockit (http://www.rockit.it/album/11551/amari-poweri).
Come nei gialli che si compravano all'edicola davanti alla spiaggia, vanno velocemente presentati i personaggi per anche solo cominciare a capirci qualcosa.

Dunque, Rockit è un portale (con relativo cartaceo) che da anni si occupa di musica italiana filtrata. Ovvero, come un colino, non lascia passare le robe grosse e preferisce occuparsi delle briciole.
Con la più o meno precisa volontà di trovare le migliori e farle diventare troppo grosse per il colino. Oltre a ciò, organizza il MIAMI, uno dei più ambiti e riusciti festival indipendenti (da cosa non si è capito, ma tanto vale) della penisola. Anni fa la redazione era nota per stroncature feroci e severità da collegio di danza austriaco.
Poi, man mano che il mondo della musica povera italiana ha cominciato a stringerlesi addosso, è diventata più morbida, accomodante e costruttiva.
Rendendo possibili tante cose belle, tanti concerti, tanti baci - come direbbero loro - e perdendo il quid giornalistico, perché dire sempre la verità mal si accorda con la concordia e col costruir le cose.

Gli Amari sono una band friulana diasporata sul suolo italico che da anni ormai produce e suona pop elettronico, declinabile in altre ottocento definizioni più à la page di questa.
Non si può dire che siano miei amici nel senso di poterli chiamare se hai problemi col pusher o se hai voglia di piangere, ma diamine si è riso e scherzato assieme spesso e nulla mi vieta di dire cose buone di loro se dovessi testimoniare in tribunale. Oltre che a concerti comuni capita di incontrarli nei locali di Milano, dove il nostro mondicciolo si riunisce senza volerlo (perlomeno i più ingenui non lo vorrebbero) per parlare di perchè quella sera non si è in concerto da qualche altra parte. Tipo quei locali alla Scarface dove i mafiosi della zona ci sono sempre tutti, solo che qui di soldi ne girano meno che pochi e pure di quelle altre due cose che fanno girare il mondo.

Michele Wad Caporosso è un redattore di Rockit. Veste come un mio compagno delle medie che nel periodo in cui l'NBA in Italia se la cagava qualcuno si conciava come una comparsa di un video di Nelly, ma una di quelle che non avevano i vestiti della taglia giusta. Wad è così, e giuro che all'inizio non capivo bene da che punto cominciare a prenderlo sul serio. L'ho incontrato mille volte, scambiato saluti, a volte parole intere e concatenate, interviste, pareri, pacche su spalle. Poi, all'ultimo Miami, mi intercettano (o incastrano) per un reading in area respiro di Giorni Migliori, il libro che raccoglie sa Dio quante newsletter di Rockit - quelle che riesci a trovare sinceramente belle solo sei innamorato perso, c'è il sole e hai trovato dei soldi per terra. Sono l'unico pollo caduto nella trappola, ma ho bevuto abbastanza per stare al gioco. Davanti a quindici persone che probabilmente non ascolteranno mai (o mai più) i Ministri in vita loro, comincio a leggere e alla terza frase mi blocco per commentarla.
Dicendo qualcosa tipo, ecco queste sono le cose che non sopporto di Rockit, io vorrei davvero sapere chi cazzo ha scritto una frase del genere. Quindi finisco il (come odio questa parola) reading.
Wad mi ringrazia di aver letto e messo una (pessima) pezza alla loro (pessima) idea di fare un reading. Poi aggiunge: io, l'ho scritta io quella frase. Tranquillo, pacato, come se volesse semplicemente rispondere alla domanda da me rivolta al cielo. Scoprirò poi che è vero e non è vero, che quelle newsletter le scrivono tutti assieme o nessuno o forse coprono una penna nascosta o forse le scrive Faletti per arrotondare.
Ma quella frase mi sa proprio che l'aveva scritta lui, o è come se.
Non ricordo come ho replicato, ma se avessi una Delorean volante forse tornerei indietro a stringergli la mano.
Fosse capitato a me, avrei forse detto io a mia volta - ma più col tono di chi mette in conto di poter cominciare una rissa.
Perché buona educazione vuole che le gaffe non siano smascherate (e gaffe è un sinonimo di verità, in fondo).

Ed eccoci al punto. C'è il nuovo disco degli Amari da recensire. Il che vuol dire, dato il quadro appena tratteggiato, che se è bello converrebbe dire che è molto bello, se è nella norma che è bello e che conferma le buone cose già dette, se fa cagare che è un disco difficile e arriva dopo un po' (presumibilmente ben dopo la recensione e forse mai, ma non lo si dice).
Così sono funzionati gli ultimi due anni di Rockit. Con buona pace delle band, che potevano disporre di una recensione autorevole, amica e comprensiva - spesso con bulimie di aggettivi dettate dalla voglia di nuovi collaboratori di entrare nel giro del volemose bene. Il risultato è stato, in teoria, duecentocinquanta tra dischi e demo da avere assolutamente, in pratica, cinque proposte in due anni capaci di tirare almeno la testa fuori dalla palude degli emergenti.
Tutti contenti? Tutti contenti. Specie chi suona: per qualche fastidioso motivo, anche la più indomabile delle band legge le proprie recensioni come si leggeva la pagella in atrio, analizza frasi sospette come un filologo di professione e soffre, bestemmia e insulta (chi ad alta voce, chi reprimendo) al primo piccolo vento contrario.
Il problema è che qui si è tutta gente che si conosce, che prima o poi sai di incrociare di nuovo sul cammino fatto di pavimenti di circoli arci e asfalto di parcheggio da festa della birra.
E allora, se scrivi su Rockit e non vuoi doverti inventare una faccia per uno a cui hai stroncato il disco, eviti di stroncarlo.
Visto da questa parte, da quella di chi suona, è esattamente quello che vorresti. Non lo vuoi neanche pensare per onestà con te stesso, ma vorresti dire fatelo recensire a qualcuno a cui piace.
Il che è evidentemente l'inizio di un modo di pensare brutto.
Eppure, cazzo, tu su quel disco hai lavorato otto mesi, ci scommetti parte della tua credibilità con chi ti ascolta e con la mamma e il papà che vorrebbero vederti laureato con la toga lunga, e insomma ti chiedi perché cazzo mai deve arrivare qualcuno a romperti le uova nel già misero paniere, per un'impressione avuta dopo - ne sono certo - un ascolto fugace preparandosi a uscire e a cercare di rimorchiare dicendo di fare il giornalista musicale.
Il che è evidentemente l'inizio di un modo di pensare brutto.
Tanto quanto lo è smettere di dire le cose che si pensano per non rendere problematici i saluti da ascensore.
Su questo genere di silenzio si basa molto del peggio che infetta questo paese. Tipo le riunioni di condominio o la mafia, per dirne un paio di quelle grosse.
Io non ho ascoltato il disco degli Amari, non so se è meglio per loro che si sciolgano e mi sento di augurargli ogni bene come me lo auguro per il novanta per cento delle persone che ho conosciuto.
Ugualmente, non vorrei mai leggere simili parole su qualcosa fatto da me.
(Cazzo - consenso del pubblico o meno - certe cose possono insinuarti dubbi grandi almeno come la speranza di aver fatto le scelte giuste).
Ma non si sta parlando di questo, e forse non ne parla neanche quella recensione. Non si parla di quanti la leggeranno, di quanto peserà sulla carriera degli Amari, né di quanti altri dischi si meritavano recensioni anche peggiori. Qui si parla di una persona che ha scelto di distruggere il lavoro di una band che con ogni probabilità incontrerà nei prossimi sei mesi al bancone di un bar.
Lo ha distrutto a gratis (o quasi, considerando quanto son pagati) e si è giocato pacche sulle spalle, sorrisi e una buona parte di tranquillità.
Si sta parlando di un mondo piccolo, di un mondo che si morde la coda anche quando non vorrebbe, eppure non è più piccolo di quello di qualsiasi ufficio, famiglia, scuola, ospedale, tribunale, consiglio comunale, comunità di registi gay-lesbo, ritrovi di teatranti e sette segrete di nerd di ogni razza e colore.
Se il Wad ciascuno di questi mondi - sperando che non siano tutti vestiti come lui - domani dicesse quello che crede di dover dire, l'Italia cambierebbe in un mese più di quanto non sia cambiata in quarant'anni.
Ogni piccolo universo tende all'armonia solo per la sopravvivenza, col risultato che la verità va a farsi fottere - solo che si dice che lo faccia per una buona causa.
E' arrivato il momento di distruggersi con onestà, di non andare più d'accordo, di dire che il re è nudo - quando è nudo come un verme.
E avere l'onestà di continuare a salutarsi.
A quel punto sì che varrà qualcosa salutarsi.

lunedì 12 ottobre 2009

Frammenti dai diari dei Tempi Bui #1

Forse le sole parole sincere sono quelle della fantascienza.
Le nostre sono interessate, compromesse.
Quello che accade non dovrebbe mai essere documentato: mai le foto, mai una parola scritta, mai la tua telecamera idiota che fa cambiare a tutti il tono di voce quando la accendi. Raccontare con la voce, ecco l'unica strada possibile. Perché accade.
Queste parole non accadono.
Provincia piemontese, si vedono i monti e si capisce che le città vere sono tanto lontane da non poter contare su di loro. Si mangia al Valhalla Pub, che non ha neanche il coraggio di giustificarlo quel valhalla, neanche il rischio di venire alle mani con un gestore nazistello.
anzi: schermo volgare con gente volgare che agita il culo a un volume volgare ma non tanto da coprire vociare di famiglia inspiegabile e morbosa seduta davanti a noi, con presumibilmente zio che sfiora il culo di nipotina quindicenne che guarda altrove e cerca fuga via sms. abbiamo lasagne e salamella e patate, dice lei, ma in un posto così ti fidi solo di prodotti che scadono nel 2014, ti fidi delle scatole, della latta e di tutto ciò che non può essere manomesso.
si torna che c'è il locale ancora vuoto, il momento in cui manda più vibrazioni, il momento in cui se lo ascolti capisci tutto ciò che sarà.
E questo sta dicendo la gente non viene qui perché qui si sta bene, la gente viene qui perché non sta bene altrove e qui le è permesso di diventare brutta e deforme senza che ciò comporti il licenziamento.
Qui la gente si deforma, in due parole.

martedì 6 ottobre 2009

Guida al turismo eco-insostenibile: l'orrendo segreto di Ansbach.

ansbach old

C'è quasi sempre un motivo per cui la gente si riunisce.
Non è detto che sia buono, anzi, ma di regola c'è.
Che sia un incidente stradale, una partita di calcio, un po' d'ombra o la scritta now boarding (che, per esempio, non è un buon motivo per stare in piedi mezzora, tanto ti imbarcano lo stesso).
Andando a ritroso, si potrebbe ragionare in modo analogo per qualsiasi insediamento umano - e allora i motivi diventano un fiume (la mia città fa eccezione e infatti non si capisce che cosa sia lì a fare),un golfo, una miniera, un'oasi.
Bene, rovesciando la questione viene da chiedersi se dove non ci sono essere umani c'è sempre qualche buon motivo per cui, o se semplicemente non c'è ancora nessun essere umano, ma arriverà.
Un interessante quanto inquietante contributo a questa inutile riflessione notturna (notturna almeno per chi scrive, anche se in aeroporto devono sempre illuminare tutto a giorno) viene dall'altrimenti inutile cittadina di Ansbach.
Nel senso di quelli che già ci vivono, anche perché non c'è nessun buono motivo per andare ad Ansbach (e questo non c'è bisogno di dimostrarlo) - e mica lo sapevamo.
Una guida addirittura la segnala come punto d'interesse - come se ci fosse ancora qualcosa di interessante nei castelli, nei monumenti di gente a cavallo e nelle residenze di Ottone quattordicesimo bis.

_UNA COSA BUIA NON PUO' ESSERE APERTA

Ansbach, se la incontri all'inizio di una vacanza, la scusi: sai che ci devi passare una sola notte e allora cerchi il bello o almeno il decente a ogni pie' sospinto.
La città è tagliata da un fiume, ma uno di quelli che neanche ti fermi a guardare come sono le acque. Così deve aver fatto il fondatore di Ansbach, perché il rivo è come ignorato dalla città. E viceversa.
Ci mettiamo a cercare un posto dove dormire, pronti a incassare bonari e stupiti sorrisi crucchi che cerchino di indovinare il motivo del perché mai siamo capitati ad Ansbach, tenuto conto che non abbiamo l'aspetto di appassionati di residenze di Ottone Dodicesimo.
Il primo modestissimo albergo a cui attracchiamo ha l'aria di non aspettare neppure quelli che cercano un cesso, nonostante sia colmo di depliant da reception sulle attrazioni della zona (notate: quei depliant sono tanto più numerosi nelle zone in cui non c'è un cazzo da vedere).
Però è pieno: due crucchi si alzano dalla penombra di una sala per le colazioni come se fossimo entrati alle tre di notte (sono le tre di sera, o di notte - per loro) e fanno larghi cenni di diniego.
E' al completo, e lo dicono pure come fossimo degli stronzi a venire ad Ansbach senza prenotare.
Ci manda da uno degli altri quattro alberghi della città spalancando le braccia a dire forse lì qualcosa trovate ma se vi va male sapete che la colpa è solo vostra, sprovveduti. Di nuovo, attraversiamo Ansbach, e anche se ci venisse la voglia di investire qualcuno per vedere cosa si mangia nelle carceri tedesche, non potremmo in alcun modo.
Ansbach è piena ma di gente che non vuol farsi vedere (e investire).
Trovata finalmente la camera - l'albergatore ha la faccia del fattore austriaco o dell'austriaco che stupra la figlia in cantina da dodici anni o dell'austriaco e punto - decidiamo di visitare Ansbach per scoprire cosa la renda così appettibile, segnalata e contemporaneamente vuota.
E' un mercoledì di fine settembre, non chiediamo mica una festa di quartiere o il santo patrono, solo un po' di movimento annacquato da turistame tedesco con gli zoccoli, il pile e le mercedes anni 80 rosse venute dai quattro angoli della Sassonia per essere parcheggiate furoi dalla residenza di Ottone Pio decimo.
Macché.
C'è un silenzio da film horror di bassa lega, di quelli che la sceneggiatura temporeggia per dirti che cosa ci sia effettivamente di sinistro perché effettivamente se lo deve ancora inventare.
I pochi bar e ristoranti aperti ti ricevono rassegnati, come se la città galleggiasse su un destino tristissimo e indicibile (pena l'esclusione dalle guide turistiche).
Che cosa spinge gli Ansbachiani - già detto così sembrano più alieni - a non riunirsi e a non volerne proprio sapere?
Cercando di risponderci arriviamo al fine davanti al chiaccheratissimo parco della residenza di Luigi Ottone ventuno e nello stupore lo troviamo aperto.
Ma anche completamente buio, buio da non vedersi le mani.
Il parco - residenza inclusa - sorge nel centro di Ansbach e per come si dispongono le case attorno ad esso sembrerebbe essere, in ultima analisi, l'anima stessa di Ansbach.
Ma qualcosa non va in una reggia di Versailles aperta di notte e drasticamente non illuminata. Non esistono cose aperte e buie, penso.
Mentre temporeggiamo sul baratro verde di Ansbach, incrociamo un Ansbachiano in movimento.
Che sia indigeno lo dice il fatto che il passante si infili con sicurezza nel buio giardino, scomparendo dopo pochi metri al nostro sguardo.
Ehi, c'è vita oltre il cancello.
E ci buttiamo anche noi cercando di capire la ratio che tiene quel parco aperto e buio rispetto - che so - a un sempione chiuso e illuminato.
I serial killer previsti dalla componente femminile della compagnia ci danno buca ma tutto continua a sembrare una sorta di set di Silent Hill, ivi compreso il biergarten della villa - chiuso e senza tracce di una recente attività nonostante
1. ci sia bel tempo
2. mi risulta che i tedeschi bevano birra
3. se non bevono birra all'aperto in questa stagione non capisco quando, dato che tra un mese ci sarà la neve ai citofoni
4. il biergarten e bar annesso non sembrano lasciare immaginare un uso recente ma sono tutt'altro che abbandonati - come se fosse tutto tenuto in ordine per Ottone tredicesimo.
Poi, proprio quando il mistero si stava pericolosamente mischiando al sospetto che forse ad Ansbach non c'è semplicemente un cazzo da fare (asserzione comunque sempre vera), l'orrenda scoperta.

_IL CINEMA DELL'ORRORE


In una delle piazze centrali di Ansbach, a fianco del fiume, dietro al parco di cui sopra e di fronte al municipio o chi per esso, sorge un cinema.
Un edificio di un certo pregio, con un taglio architettonico un po' da Manhattan anni settanta, vetrate ampie sui tre lati, chiaramente lontano dallo stile crucco degli altri edifici della piazza ma non burino, né fastidiosamente modernista - forse giusto un po' pretenzioso per la nostra idea di Ansbachiano medio.
Come per il biergarten di cui sopra, continua a valere la strana regola per la quale il mercoledì gli esercizi di Ansbach atti al riunirsi degli uomini non siano aperti (e sì che il mercoledì il cinema costa pure meno).
Nessuna traccia del perché sia chiuso, neppure un misero cartello, nessun torniamo subito ma anzi una sfilza di locandine che lo fanno sembrare un comune cinema di fronte al quale stai passando ubriaco alle quattro di notte.
Stupiti quanto oramai annoiati dall'insulsa gestione dei servizi ansbachiani, alziamo gli occhi al cielo e incrociamo la luce di un lampione.
E là, nell'angolo retto dove il palo fa il suo giro per fare effettivamente pendere il lampadone, non possiamo fare a meno di notare un ragno di quelli brutti, ma brutti di quelli che se anche non hai paura dei ragni riconosci che quello sì, è ben brutto.
I ragni si dividono in ragni gambalunga - quelli col busto che è la capocchia di uno spillo e le gambe esili che le puoi staccare ad una ad una - in ragni stupidi - quelli che trovi ogni tanto a casa e sei pronto a scommettere che nessun entomologo ci ha mai sprecato un pomeriggio - in ragni brutti - quelli che dici quanto cazzo è grosso e brutto quel ragno pur sapendo che esistono in un'altra parte del mondo ragni infinitamente più grossi però cazzo tu vivi nell'altra parte del mondo apposta e quindi quello che hai davanti è già sufficientemente grosso e brutto - e ragni infinitamente più grossi, per l'appunto - quelli grandi come una polpetta, pelosi e che l'unico modo che hanno di arrivare in Italia è l'essere portati a una cazzo di trasmissione condotta da Antonella Clerici in cui qualcuno se li fa camminare addosso.
Il ragno che avevamo davanti era della categoria tre, quelli brutti.
Corpo atletico, busto incazzato e della forma che disneyanamente ti comunica ok questo è uno dei cattivi, ragnatela ampia e già piena di vittime.
Siamo ancora lì come scemi a cercare di documentare con la macchina fotografica (col tipico risultato di quelle foto insulse che sei costretto a dire a chi le guarda la foto non rende, ma dovevi vederlo dal vero) quel ragnone venuto a rompere apparentemente senza un perché il nulla di Ansbach, quando da dietro un mezzo urletto lascia a intendere che non è il solo.
Sul lampione a fianco, altri tre ragni della categoria tre - grandi quanto il primo se non di più, e nessuno vuole metterli a fianco per un confronto all'americana - inghiottono mosche e sputano tela come fosse l'unica cosa da fare ad Ansbach.
Due rondini non fanno primavera, e per un po' cerchiamo improbabili connessioni tra la luce e i ragni - ma quelle non erano le falene? - immaginandoci su tutti i lampioni di Ansbach dei cristi del genere e capendo perciò perche la gente preferisce l'oscurità.
Ma la realtà è ben più terrificante.
I nostri occhi scendono dal lampione e finiscono sulle buie transenne che delimitano lo spiazzo davanti al cinema: tutto è spudoratamente ricoperto di ragni - piccoli, piccolissimi, grandi, grandissimi e con una componente di pesi medi che rendono lo spettacolo complessivamente spaventoso.
Il primo pensiero non è un pensiero ma un ritrarsi imprecando, il secondo è chiedersi dove sia la regina madre, il terzo chiedersi se tutto ciò abbia a che fare con Ansbach e la sua immobilità.
Come direbbe un pessimo copywriter di film di serie B, l'orrore continua: dalla balaustra arriviamo al fianco sinistro (è il caso di dirlo) del cinema, dove corre un muretto affacciato sul fiume.
Proprio in quel momento ci viene incontro una sparuta famigliola di non ansbachiani - chiaramente riconoscibile come tali poiché camminano lasciando correre la mano sulle transenne, ignari di cosa brulichi sotto. Non riusciamo ad avvisarli o forse non vogliamo, nella speranza che l'oscena stirpe li risparmi.
Finalmente stimolati da Ansbach, tentiamo la circumnavigazione del cinema per capire se è da lì che si diffonde l'orrore (non sono un paio di ragnetti, sono tot di centinaia di centinaia di ragni grossi e brutti e sessualmente attivi: non userei la parola orrore altrimenti).
Una porta laterale del cinema offre nuove e più inquietanti notizie sull'influenza della colonia sulla vita degli ansbachiani: le ragnatele e una dozzina buona di ragni grossi come una pizzetta vi pendono davanti, alloggiati in una trama di ragnatele talmente fitta da lasciare a intendere che quella porta non viene aperta da tot giorni. E proprio mentre a debita distanza cerchiamo di capire quale sia l'epicentro e cominciamo discussioni tipo quelle al bar assediato in Uccelli di Hitchcock, una figura umana sgattaiola nei corridoi del cinema - che in virtù delle sue pareti di vetro nulla può nascondere.
Quindi qualcuno almeno cerca di resistere.
Attraversiamo il fiume dopo aver ammirato un'ultima volta quel tetris di ragni che si dipana giù fino alle rive.

_RINASCITA, ALCOLISMO E BANDA FRATELLI


Passato il ponte siamo già nella Ansbach povera o perlomeno quella a cui meno interessa farsi vedere in tiro - più o meno dove ai tempi di Ottone Tullio quarto dovevano abitare i contadini - e cerchiamo un bar senza rinunciare a controllare ogni lampione, semaforo, idrante.
Ma nella Ansbach che non conta non ci sono ragni.
Neanche esseri umani, a dirla tutta. Una desolazione speciale avvolge l'aldiqua del fiume, e la mancanza di mammiferi pare più l'effetto che la causa.
In uno spiazzo d'asfalto dalla forma casuale che nessuno oserebbe mai chiamare piazza, svettano tre prefabbricati alti poco più di un'edicola che sintetizzano la sostanziale sconfitta degli Ansbachiani di fronte alla minaccia a otto zampe e a chissà quali altre.
Alle nostre spalle, una videoteca - antico esercizio commerciale che per una cifra spropositata ti permetteva di vedere un film per una sera e di dimenticartelo a casa per molte altre.
Da notare che la presente è di quelle nate dopo Blockbuster, un emulo tanto più penoso per l'esser nato in anni in cui neanche lo scemo del villaggio avrebbe investito sui film a nolo.
Dividete l'incasso medio di una videoteca oggi per la sfiga degli abitanti di Ansbach misurata in uova di ragno e vi renderete conto di quanto triste potesse essere, con le vetrine affollate di cartonati di film horror improponibili, di quelli che il cinema lo saltano - per grazia di dio - a pie' pari.
Poco più avanti, un casotto ravvivato da un neon verde segnala la presenza di un tatuatore.
Nonostante la notte lo renda lynchiano oltre ogni misura, sembra uno di quei posti in cui Bart e Milhouse andrebbero a farsi un tatuaggio durante una bigiata.
Girando ancora gli occhi in questa deprimente Stonhenge, superato il blu di un benzinaio sullo sfondo uscito anch'esso da Mulholland drive, troviamo un ultimo container abitato - e per quello che i vetri opachi concedono agli occhi, pare trattarsi di una birreria.
Tutto sembra dire stai alla larga, ma per stasera abbiamo già indietreggiato abbastanza.
Dentro, un salottino da rifugio di montagna impregnato di fumo come una casa libera con gli amici a quattordici anni.
Impossibile, anche solo a qualche giorno di distanza, ricostruire fedelmente gli avventori del bar e la proprietaria.
Per quello che mi posso ricordare, dovevano avere tutti una benda su un occhio, la barba lunga da nostromi alcolizzati e dietro al bancone giuro c'era la mamma della Banda Fratelli.
La tentazione di chiedere delucidazioni sulle cose che succedono sui lampioni e non solo di Ansbach è forte, ma 1) non so come si dice ragno in tedesco (spinnen, ma lo scopro ora), 2) non sembra il caso di girare il coltello nella proverbiale piaga.
La mamma della Banda Fratelli mi passa la birra e mi risponde con gli occhi a tutto quanto.
Non c'è nessun buon motivo per riunirsi qui - a meno che non si abbiano problemi con l'alcol.
Ma ci sono ottimi motivi per non riunirsi là fuori, dove ogni carezza sarebbe scambiata per un ragno sulla schiena.

_proposito

Domani scrivo alla Lonely Planet: se proprio devono mettere Ansbach sulla loro cazzo di guida, che ce la mettano per quello che davvero merita. Fuoco ai castelli e alle statue equine, liberiamo le città prigioniere del loro passato, del loro vecchiume da soffitta, dei loro punti panoramici, delle case dove una notte ha dormito X, del cimitero dove è sepolto Y, dei giardini all'inglese su cui nessuno correrà.
Andiamo ad Ansbach per i ragni, e forse la gente tornerà per le strade.

_p.s.

Neanche a volerlo, cercando foto di Ansbach su google:

http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/esteri/200909articoli/47428girata.asp

lunedì 28 settembre 2009

Due parole sul video di Briatore.

Il caso ha voluto che il video de La Faccia Di Briatore esca in un momento
in cui i media non hanno più nessun buon motivo per farla vedere - la faccia di Briatore. Le tristementi note vicissitudini del Flavio nazionale l'hanno di certo
resa scura - e non più abbronzata come eravamo abituati a vederla.
E nessuno vuole vedere una faccia scura.

Proprio da questo bisogno di facce abbronzate nacque più di un anno fa il testo de La Faccia Di Briatore: il profeta che avevamo scegliemmo per i Tempi Bui aveva il volto luminoso e inspiegabilmente vincente.
Inspiegabilmente, appunto. Flavio era dovunque, rimbalzava dai giornali alle tivù alle hompage dei portali - quasi sempre per accompagnare le cronache delle sue vacanze.
Chiedersi dove andasse, pareva esser compito dei giornali; chiedersi perché occupasse tanta parte degli spazi dei mezzi d'informazione fu compito, tra gli altri, dei sottoscritti.
Ma tra gli altri c'era anche Medici Senza Frontiere, che nello stesso periodo pubblicava uno studio che evidenziava come le ferie di Flavio ricevessero dai media il triplo dell'attenzione rispetto a conflitti e epidemie gravissime che sconvolgevano il Myanmar, il Congo, lo Zimbabwe e probabilmente parte della Storia stessa.
Come titolò Repubblica, Briatore batte Darfur.
Il video de La Faccia Di Briatore non fa che materializzare questa affinità di sguardo tra noi e Medici Senza Frontiere.
Ovvero semplicemente chiedersi che cosa non ci stanno facendo vedere.
E rispondendosi con crudezza - gli estratti eccezionali e inediti estratti dagli archivi di Medici Senza Frontiere che interrompono il video - e fiducia - mostrando i volti della gente, chiamata tramite Myspace e Facebook a metterci la faccia, per l'appunto.
Come fosse un semplice link, il video invita a guardare altrove, a guardarsi attorno e a capire che anche noi siamo responsabili dei contenuti dei nostri tempi. Chissà che un giorno non se ne accorgano anche i media.

Si ringraziano di nuovo il regista Alberto Sansone, Sergio Cecchini a MSF e i fedelissimi che sono venuti posare per noi, qualcuno facendosi tipo cinque ore di Trenitalia. Hai detto niente.

http://www.youtube.com/watch?v=29Hy61vDPdQ

domenica 20 settembre 2009

Il bisogno di nemici.

lunapark

L’inno. Il loro. Ma noi chi siamo?
Sentito alla radio che prende male, fuori il luna park dell’Idroscalo sotto la pioggia, è più tetro di quanto non si possa permettere d’essere.
Il trucco si scioglie ma viene raccolto in appositi contenitori, da conservarsi in luogo asciutto lontano da fonti di calore.
La libertà non è più cosa mia, tenetevela, vi esploderà in mano.
Questo – il luna park chiuso e umido - è il posto giusto per sentir rinascere il fascismo.
Non me l’ero sognato così. Il fascismo che aspetto da quando ho imparato a parlare era più scuro in viso. Certo, avrei potuto sognarlo meglio. Avrei potuto sognarlo con due teste, e invece qui non ce n’è neanche una. Lo vedevo ovunque – polizia, professori, zarri del campetto, imborghesiti, arricchiti, politicanti, madri, padri. Con un ventaglio così ampio, era difficile toppare: controllavamo il fronte dalle nostre quattro mura e urlavamo al duce al duce quando vedevamo qualcosa di sospetto.
Andavamo a letto ricontando quanti allarmi avevamo dato, e mi stupivo nello scoprire che la loro frequenza si abbassava drasticamente nei giorni di festa, all’ora di pranzo e nelle giornate di sole. Io ero sulla muraglia rivolta ad est.
Appena sotto sfilavano – ogni mercoledì sera – i nazisti di Piazzale Susa. Fiaccolate lungo i giardini di viale argonne – dove qualche anno prima andavo per giostre, dove qualche anno dopo sarei andato per hashish.
Non che le abbia mai viste le fiaccole. Avevo appena imparato a non aver paura dei tedeschi (chi mi aveva cresciuto con la paura dei tedeschi?), ero sgusciato via da elementari e medie schivando risse, schiaffi, sigarette e gente che ci si vede fuori.
I nazisti venivano a colmare una sopraggiunta mancanza, sfilavano per ricordarmi una presunta grande verità: là fuori c’è qualcuno che indipendentemente dalle tue azioni ha una gran voglia di pestarti. Grazie, me ne ricorderò.
E intanto nessuno mi pestava. Uno schiaffo, che risuonò nel corridoio del liceo come uno stiamo arrivando. Nulla più.

mercoledì 9 settembre 2009

Il Mio Telefonino o dell’impresentabile arma di distruzione di massa

telefonino


Avevo bisogno di un nuovo telefonino. Falso. Ma avevo bisogno.
Ero sciupato e freddo, volevo un commesso che mi dicesse le sta benissimo.
Pensavo che con un telefonino VERO, contemporaneo, avrei dovuto vestirmi meglio – l’avrei fatto per lui, per non farlo sentire in imbarazzo quando l’avessi tirato fuori dal buio delle mie tasche.
Non ne parlo a nessuno, zitto e veloce mi infilo in un MediaOrco per farmi aggiornare e ripulire.
E’ mattina, intorno solo brufoli che bigiano giocando a isspro e commessi che hanno lasciato la scuola per un lavoro che permette loro di giocare a isspro in pausa pranzo.
Rinuncio a esporre il mio dramma. Confuso come un amish in un solarium lascio l’impronta dei miei ditoni sulle teche di vetro che custodiscono tot milioni di megapixel, asterischi, cancelletti.
Esco dall’orrendo tempio mezzora dopo, sudato, confuso e con un Nokia grosso come una fetta di plumcake, volgare, tozzo, pitturato da fior di fragola e con una suoneria da far invidia a Radio Rakim.
La situazione non è migliorata. E’ impresentabile quanto me.
Estrarlo in luoghi affollati è dire l’ho scelto. E per tre mesi chiunque mi chiami non sa di azionare settanta decibel di Buddy Holly dei Weezer, ch’io sia a un funerale o alle poste.
Poi, una notte di quelle che non si dovrebbero guidare neanche i risciò, lo lancio nell’Idroscalo e adiacenze. Per vedere l’effetto che fa.
Quando mi riprendo, sono impresentabile e irrangiungibile.
Passano due giorni e una santa, impietosita dal racconto e dal narratore, estrae un telefonino dalla borsa e mi dice tieni, è tuo.
Un Nokia e rieccoci ma di quelli vecchi che non si rompevano neanche se.
Infatti, tuttora.
Ed eccoci al punto.
EasyJet Milano-Catania – ma vale un volo qualsiasi per un luogo qualsiasi.
Ti siedi col sacchetto per il vomito davanti e le maschere di ossigeno sopra – non esattamente auguri di buon viaggio - e una voce dice da questo momento dovete spegnere tutti i telefoni cellulari e apparecchi elettronici come etc etc.
Tutti i telefoni cellulari vuol dire anche il mio.
Bene.
Devo credere dunque che l’uccello di latta che mi porterà a diecimila metri sopra il livello del mare ma peggio ancora al livello dei sassi abbia da temere dal mio Nokia con fotocamera da 20 k?
Tutti i vostri salvagenti, giubbotti, scivoli, figli di puttana che mi fanno buttare lo shampoo, metal detector che cercano vibratori, taglierini e candelotti di Wile Coyote, tutte le vostre uscite di emergenza, le pistole portate nel fodero da cani e porci e porci con cani, le lucine in cabina, le hostess materne esperte di kung fu, le vostre gallerie del vento, i librettini da video di Royksopp che ti dicono come salvarti se l’aereo precipita da trenta metri di altezza su una spiaggia delle microcicladi, tutta la vostra sicurezza del cazzo.
Tutto e tutto e tutte in balia del mio cellulare e del suo tastino gommoso e rincagnato che a fatica convinco con l’unghia?
Peggio ancora: io d’improvviso eletto mastro burattinaio della vita di questi italioti, turistacci, suore (tua), complessini, piloti e managerotti. Io decido della loro vita.
Ditelo da quell’altoparlante, ditelo se è vero che ognuno è dunque responsabile della vita di tutti gli altri, finite la frase.
Perché nessuno mi fruga nelle tasche? Perché non mi dite perché devo spegnerlo, quali sarebbero le conseguenze del tenerlo acceso? Perché nessuno controlla? Perché non me lo fate buttare in una cesta, perché non lasciate che ognuno sfoggi il suo telefonino spento, perché non lasciate che i miei vicini di posto lato finestrino grazie che soffro il volo ridano del mio telefonino?
Se solo l’hostess fosse tenuta a portarmi qualcosa da mangiare, le lascerei sul riso scotto un bigliettino con su scritto non l’ho spento e non lo spegnerò.
Lo squillo, l’orrenda suoneria Bluesquares che parte (ta ta tara, tattara tatta ta) e poi l’esplosione.
La scatola nera che registra tutto. I telegiornali che la mettono come colonna sonora mentre elencano i nomi delle vittime. Il giorno dopo migliaia di talebani e americani con la barba da talebani fanno esplodere migliaia di aerei a colpi di sms e chiamate con l’addebito.
Non succederà, perché la sicurezza è solo la voglia di avere dei guardiani.
L’hostess lo sa e si mangia il biglietto – tanto la sua dieta è di poco migliore.
E io resto seduto, con in tasca un’arma di distruzione di massa che nessuno ha voglia di disinnescare.

martedì 1 settembre 2009

Dei signori.

Sei in camerino a riprendere fiato e a giurare che quest'inverno farai le corse nel parco, e ti arriva questo.
Accompagnato da tre bottiglie di Champagne, cazzo.

coldplay copy

mercoledì 19 agosto 2009

Il sole (Germania-Italia 4 a 3)

Cielo come se dovesse piovere. Ma non deve.
Ogni giorno così – quando non piove.
E allora faccio il mio dovere e tu fai il tuo.
Sorrisi più misurati, più preziosi – perché sorridere non è la prima cosa che mi viene in mente. Ci è toccato lo stesso cielo, ti chiedo solo di non aggiungere a questo grigio inevitabile altri fastidi evitabili.
Così sembrano funzionare le cose qui.
Un po’ più giù, da dove scappo, il sole lo si pretende.
Il sole ce lo deve, di uscire e farci belli e di far maturare i pomodori.
Sono come il sole a mezzogiorno baby.
Nascondiamo la zappa e cantiamo felici e superbi la nostra latitudine, come fosse un merito, una medaglia guadagnata sul campo.
E invece è la nostra disgrazia: è il Sole che droga e perdona, che fa dimenticare le offese del giorno prima e che legittima così quelle del giorno dopo.
Il Sole è il nostro circo, calato dall’alto come una bomba che tarda a toccar terra – bella come una mongolfiera finché se ne sta lassù.
E intanto quelli che (non) guadagnano medaglie nei campi, lo sentono graffiare sulla schiena e sulle spalle. Poi tornano in paese e non capiscono più di chi è il sole, e con chi ce l’ha.

mercoledì 5 agosto 2009

Diario di altre vacanze. Di quelle che non stiamo facendo.

Volo MilanoTokyo gennaio duemilasette

Marco Polo del cazzo. Vedo la Cina. Neve sui finestrini. Una landa desolata, una risaia abitabile poi. L’occhio non si chiude, anzi si chiude e vede solo palpebra. Non si può volere non volere. Questo succede già con te. E ora col dormire.
Di fianco, una coppia di flashati a mandorla ronfa in mille posizioni.
Ha ciabatte d’ordinanza. Lei la mascherina anche. L’aria svampita, la macchina fotografica come prolungamento del tronco e del viaggiar volgare: tutto un trucco. Sono lucidi, paranoici e attendisti. Ma lucidi.

Posso stare immobile 12 ore su una poltrona con le ginocchia in bocca e tre soli bicchieri d’acqua in dotazione. Posso soffrire la sete per educazione.
Sono pronto per il peggio, datemelo. Spazio più stretto e meno acqua.
Quella di fianco ha fatto colazione, poi si è rimessa la mascherina. Si liscia i capelli e parla col marito.

I viaggi lunghi in aereo sono come quelli in carrozza. Sale solo chi se lo può permettere ma quando si scende si è tutti più brutti, più sporchi, più sciupati. Come in film in costume, che vorresti poter sentire l’odore, il loro odore, per capire veramente di cosa si parla.

Imparare a odiare potrebbe essere una delle chiavi per cominciare a scrivere.

domenica 26 luglio 2009

Catena alimentare delle zanzare.

I gechi mangiano le zanzare.
Le civette mangiano i gechi.
I figli dei cacciatori mangiano le civette.
I serial killer dell’ex-Urss mangiano i figli dei cacciatori.
I cronachisti di Repubblica mangiano i serial killer dell’ex Urss.
I ristoratori col menu scritto a mano quattro tavoli una cosa semplice le cose semplici costano sa com’è mangiano i cronachisti di Repubblica.
I ristoratori in franchising coi pomodori pachino sul comodino mangiano i ristoratori col menu scritto a mano quattro tavoli una cosa semplice le cose semplici costano sa com’è.
I venditori di macchine grosse mangiano i ristoratori in franchising coi pomodori pachino sul comodino.
I transessuali con sito internet mangiano i venditori di macchine grosse.
I venditori di cani molto piccoli mangiano i transessuali con sito internet.
I tabaccai con la pistola e un negozio di animali in perdita due numeri più in là mangiano i venditori di cani molto piccoli.
Le tabaccaie avvolte da leggende metropolitane su passati torbidi nel mondo della prostituzione mangiano i tabaccai con la pistola e un negozio di animali in perdita due numeri più in là.
I videopoker mangiano le tabaccaie avvolte da leggende metropolitane su passati torbidi nel mondo della prostituzione.
I cinesi che rilevano i bar agli italiani e abbassano i prezzi cancellando col pennarello quelli che c’erano prima mangiano i videopoker.
La mafia che non si vede e che neanche si diverte a farsi vedere mangia i cinesi che rilevano i bar agli italiani e abbassano i prezzi cancellando col pennarello quelli che c’erano prima.
La mafia che apre le commissioni antimafia e non le chiude più prima o poi mangerà la mafia che non si vede e che neanche si diverte a farsi vedere.
Le zanzare mangiano me.

martedì 21 luglio 2009

Finanzieri all'Autogrill.

Non esiste l’abuso di potere. Esiste solo il potere.
Finanzieri al bar, finanzieri al cesso – che mi guardano i capelli e fanno capire con gli occhi che non potremo (o potremmo) mai essere amici.
Intanto inservienti, camerieri e giostrai e cassiere che tentano di venderti gratta e vinci col piglio di chi li ha disegnati uno per uno, tutti circondano di attenzioni e di parole complici le guardie dell’ordine non impegnate a guardarmi pisciare.
Se non fosse per i moscerini sui denti di quei sorrisi, che rincorrono e cercano di indovinare umori e desideri dei loro protettori, quasi avrei dubitato della mia diffidenza.
Ordine, cioè rancore. Cerco dappertutto smentite.
Ma quando metti un’uniforme, gonfi il petto.
Ieri sera, da una parte 300 civili, dall’altra le uniformi. Le nostre e quelle dei buttafuori, dalla stessa parte. Le nostre dicono rompete le righe, le loro dicono esistono le righe.
Sento il petto gonfio di una guardia alla mia destra, ritta e con la faccia so cosa stai per fare.
Lo stesso sguardo che hanno i bagnini quando credono di capire il mare.

martedì 7 luglio 2009

Letto (quando mi è crollato il).

Quando pregano, dovunque siano, gli acari si volgono verso il mio letto.
Stendono il tappetino e inginocchiati puntano il mio materasso.
Tutto temo nasca dai film dove si salta sul treno in corsa e si finisce a dormire nel vagone del fieno.
Io i treni li andavo a veder passare a Lambrate - e mi sembravano un peccato le stazioni in cui il treno non transita.
Quindi, in breve, non saltavo: guardavo.
Il letto - il mio, rifatto stretto stretto, sempre morbido e profumato per un giudice che non si è mai fatto vedere - era sempre troppo piccolo e non capivo chi o cosa potesse assicurarmi che vi sarei rimasto per tutta la notte sopra.
Oltre al muro, il lettone - che era troppo largo, forse perché mia madre ci ha sempre dormito sopra sola, e forse con la stessa paura di cadere.
La triste conseguenza si chiama una piazza e mezzo.
Il mezzo è avere più spazio e non sapere che farsene. Oppure dire stai qui a dormire e sapere che in ogni momento quel mezzo potrà diventare un non puoi più dormire qui.
Intorno, cumuli di vestiti, cavi, bicchieri, quaderni, portaceneri, mucche mi evitano il casomai impatto col suolo - aka finto parquet posato senza cognizione di posa nell'estate più calda degli ultimi ottanta anni (ovvero la penultima, l'ultima, la prossima).
Un giorno che avevo punture brutte sulle gambe e non identificate, mi dicono di accendere un fuoco sotto al materasso e aspettare che esca tutto quello che ci vive dentro.
Tolgo il coprimaterasso, chiedendomi perché non fanno i materassi già coperti, e sotto una sindone gialla e amorfa mi fa capire che dormire sporca.
Prima si trattava di un Ikea UnglunngdungHankstrom sospeso nell'aria da tralicci di balsa, malamente camuffati di nero con uno smalto primo prezzo Brico.
Stesso materasso, probabilmente stessi acari ma con meno ossigeno, zanzare schiacciate sul soffitto, sotto un terrario per merda di serpente che esalava verso l'alto.
Si capisce perché un giorno scendi dalla scaletta e decidi di non risalire più, e cominci a smontare la balsa svedese (com'è fatto l'albero di balsa?).
E ti ritrovi con un materasso - lo stesso, vivo - dentro a detta di tutti quelli che conosci - per terra, e di nuovo madre-nonni-amici-saggi che (non) ti spiegano perché i materassi non si possono mettere per terra.
Ma io non sento e mi sdraio, ancora e ancora. Fino alla minaccia del fuoco.
Compro un letto - che è il nome che si dà alla distanza del materasso dal suolo - e lo metto sotto e attorno al materasso - sempre più giallo e molle.
Lo copro e lo coloro ma ogni notte è una sfida, ogni notte è polvere e scolopendre invisibili che mi sfiorano e mi tengono sveglio.
Per non sentirle corrermi addosso, cerco di raggiungere il letto sempre più incosciente.

martedì 9 giugno 2009

Aspettare la sera.

E’ impossibile che qualcuno abbia mai potuto scegliere questa valle.
Chi vi si è insediato sarà stato cacciato dalla valle di fianco.
Tristi come elefanti del circo avranno impilato pietre, fino ad avere la testa coperta dal peggior tempo che un uomo possa immaginarsi.
Quello che rende preferibile non muoversi affatto, quello che neanche si scappa – non vale la pena. Per quattro generazioni avranno passato i giorni ad aspettar le sere, inventandosi leggi del cielo che impedissero loro di accoppiarsi in continuazione – quando non ci pensava l’afa a tener lontano i corpi.
Un giorno qualcuno l’avrà fatto notare – di come fosse impossibile innamorarsi di quella valle.
Il tempo che ci serve per trovarne una migliore è poco più di quello che ci abbiamo messo a impilare queste quattro pietre e sicuramente meno di quello che ci servirà per dimenticarle.
Non avrà fatto in tempo a dirlo, sempre che l’abbia detto davvero e non abbia solo tentato una vita di dirlo, che le voci e gli occhi gonfi di chi le pietre le aveva impilate, certo non con quelle stesse mani ma con quelle offese dei padri dei padri, non avrà fatto in tempo a dirlo che quegli occhi e quelle mani e insomma eccolo lì a dirsele da solo quelle parole, sulle pietre, senza neanche più l’eco della valle, assente per dispetto.
Qualcuno doveva averle sentite o lette nei suoi occhi o semplicemente previste, e il giorno dopo avrà dato nome e nomi a quei sassi e messo cartelli e inventato leggende – perché nessuno più potesse dir nulla su quelle pietre.
Così sarà stato, la gente avrà continuato ad aspettar la sera e a trovare buoni motivi per accoppiarsi e per non accoppiarsi. E sarebbe bastato non uscire mai da quella valle per riuscire a digerire tutto, per riuscire a dormire con l’afa e col freddo senza farsi altre domande.
Perché grado più grado meno, non esiste una valle che non abbia problemi con le pietre e con i padri e col non saper cosa fare del proprio tempo.
Ma quando non hai più voglia di scusare chi ti circonda e anche della verità ne hai abbastanza e il sudore non sa di nulla – sa di sale e basta – vai su quei quattro monti coperti di rovi, lontano dagli occhi e dalle case, sali più in alto che puoi e fai nulla – un nulla che non assomiglia affatto al nulla dei bar e delle panchine.
Ed è in quel momento, lassù, che vedi le altre valli.

domenica 24 maggio 2009

La lettera.

Breve riassunto del minidramma ministrico consumatosi tra ieri e oggi.

Qualcuno ruba dopo il concerto la giacca ministrica di Divi, unica e senza copie
(e infatti ridotta uno straccio rammendato in continuazione).
Poche ore dopo pubblichiamo il post che precede questo, un appello al ladro perché ci riportasse la giacca e ci dicesse perché lo avesse fatto.
Alla pubblicazione del blog si è levato su myspace e facebook un coro misto di fan ministrici - chi inneggiava alla caccia all'uomo, chi si amareggiava, chi ci spronava a continuare senza giacche, chi faceva appelli personali al responsabile, chi urlava al sacrilegio.
Chi non ha mai vissuto un concerto dei Ministri - vale per chi sta sopra e chi sta sotto al palco, tanto poi scendiamo sempre - probabilmente non capirà perché cazzo tanta gente sia stata in ansia per la sorte di una giacca che non si riesce ad avvicinare tanto puzza.

Eppure. Eppure abbiamo passato una notte di merda, a chiederci se tra la gente davvero passi quello che cerchiamo di dire, l'idea che sia possibile vivere e convivere e costruire in un altro modo.

Avevamo ancora le cispe sugli occhi quando stamattina il responsabile - come si definisce lui taccheggiatore - si è fatto vivo, scusandosi e dicendo che avrebbe subito restituito. Gli abbiamo chiesto - ma forse l'avrebbe lo stesso - di scriverci perché e percome - perché l'ha rubata e perché l'ha riportata.
Gli abbiamo chiesto di pubblicarlo (trascritto fedelmente da una copia manoscritta) e lui ha acconsentito, chiedendoci ovviamente di tacere la sua identità, a noi invece rivelata per filo e per segno.

Ecco.

Ok, un finale così non si vede neanche in un film di scout girato da Topolino però cazzo si sta parlando di un capitolo della storia ministrica che dice più su di noi e su di voi, più di qualsiasi fottuta recensione o sadio cosaltro.
Quindi godiamocelo oggi, e domani ri(s)componiamo le file e torniamo a incazzarci e ad agire con tutti quelli che sono fuori da noi - tutti quelli che non hanno ancora capito che le parole - e il sudore - possono cambiare tutto.



Premessa:
"incontrarci"...non merito questo privilegio, ho fatto una bravata e Voi, i Ministri, mi donate questa possibilità; ci sono molte persone, fans che ora hanno un posto in fila davanti a me. Date spazio, come fate ogni volta, alle persone belle!
Comunque vi ringrazio


Considerazioni:


a.Scrivo a nome mio, ma con vivo cuore spero che alcuni di questi pensieri siano condivisi dal mio amico.
b.Chiedo, anzi chiediamo umilmente perdono per la bravata...e meno male che i Ministri perdonano.
c.Pensavo avevate più giacche che alternavate concerto dopo concerto; invece no, vi ho sottratto la vera e unica giacca quella che ha un'anima ed una storia. Tardi compresi cosa avevo in mano.


Motivazioni:
1.Della Polizia non mi interessa molto, tra due mesi lascerò il Bel Paese per un lungo periodo e considerando le lungaggini burocratiche penso che forse me la sarei cavata, ma:
a. tardi ho compreso quanto sia importante per voi e ora rimedio (non mi sono permesso di indossarla non preoccupatevi, ho rammendato un bottone che stava per partire).
b. non voglio lasciare magagne al mio amico a cui voglio bene.
2. Non è stato un furto premeditato, come potrebbe far supporre il discorso precedente, ma uno schizzo del momento.


Sento che diventate qualcosa di importante per la musica, ma i cosiddetti Grandi non vi riconosceranno il merito (un po' come accaduto ai "fratelli" Ramones).
Come un buon taccheggiatore volevo avere, possedere qualcosa di voi, per raccontarlo a chi verrà: figli, amici, etc.
Un cimelio, un trofeo, ma:
a. ho preso qualcosa dotato di anima;
b. un vostro dono ce l'ho già, qualcuno dice vale un euro, per altri sudore, sangue e lavoro.
3. Mesi fa cercavo e stimoli e motivazioni per rimanere in Italia e tentare fortuna all'estero. I testi, il vostro pensiero mi ha aiutato in questa scelta. Infatti ho aguzzato lo sguardo sulle fioche luci lontane per conoscere e sapere del buio che mi circonda.
Proverò ad essere migrante per dare un futuro a chi verrà dopo di me.


Conclusioni: sono stato breve e schematico perché gia vi devo stare sul culo parecchio per il tempo che vi ho fatto perdere e l'incazzatura di non potersi fidare neanche di persone che hai fatto felici.
Vi dedico queste parole sapendo che non verranno prese come un gioco ed esco allo scoperto, togliendo la maschera di quel personaggio a caso creato grazie a Myspace.

Un abbraccio forte a voi Ministri



(seguono firma e contatti completi che ovviamente evitiamo di pubblicare)

(segue il p.s: così se volete venirmi a prendere a calci sapete dove trovarmi)

A chi ha rubato una giacca dei Ministri.

Questa sera è successa una cosa brutta. E il peggio è che è successa alla fine di una cosa bella.
I Ministri hanno suonato a Castellanza di Varese, al Circolo dei Ciliegi nell’ambito del Radioliuc Festival. Abbiamo dato tutto come sempre diamo, abbiamo lottato contro un caldo insensato e rischiato di pigliarci le cose in faccia perché il pogo scavalcava le spie. Va tutto bene, suonare in mezzo alla gente, fidandoci di tutti e ridando fiducia è quello che amiamo fare.
Alla fine del concerto un ragazzino ha rubato la giacca di Divi dal palco - ha rubato una giacca dei Ministri. Alla fine del concerto la fiducia dei Ministri s’è presa un tram in faccia.
Ora parlo a te. A te che ti sei portato via un cencio maleodorante con dentro un pezzo grosso così dell’anima di Divi e un pezzo considerevole delle nostre – e forse delle vostre. Io voglio sperare che dopo aver pogato davanti a noi per un’ora tu abbia voluto rubare il cappello dello stregone per provare a fare le magie e far lavorare le scope al posto tuo. Spero che sia stata l’energia che voi tutti generate davanti a noi, che sia stata quell’energia e non altro a tirarci questa pugnalata.
Perché le cose non valgono le niente, e senza le persone che dan loro vita sono ammassi di elettroni e neutroni. Perché quelle giacche senza noi dentro, sono degli stracci che ti infetteranno l’armadio e, casomai tu abbia voglia di farla rimanere lì, dovrai sopportare quella puzza ogni giorno e non ci sarà lavanderia a gettoni o a secco che possa farti dimenticare la cosa brutta che hai fatto.
Detto ciò, come l’apprendista stregone insegna, alla fine ti accorgi che hai fatto una cazzata, ti rendi conto che stai facendo male a delle persone che – presumibilmente, dato che eri lì davanti a pogare – ti hanno dato qualcosa e qualcosa possono continuare a darti.
Quindi, quando leggerai queste righe, potrai uscire di casa e camminare per le strade deserte di una domenica maleodorante e riportare il maltolto al locale, spedircelo, addirittura scriverci perché l’hai fatto e decidere di incontrarci per ridarcela (decisamente la prospettiva che ci auspichiamo, perché quello che cantiamo e facciamo è parlare, rispettare e capire. Perché sbagliare è spesso l’anticamera dell’agire e reagire).
Se farai ciò il più presto possibile, la Storia dei Ministri avrà magari un dialogo in più da far diventare canzone.
Se non lo farai, agiremo noi. Ovvero denunceremo il furto, porteremo le foto della serata (tutta come al solito documentata) purtroppo alle forze dell’ordine, indicando la tua faccia – riconosciuta già da diversi testimoni oculari.
E sarebbe davvero una merda, perché costringere ad andare alla Polizia è davvero molto ma molto peggio che rubarci qualsiasi cosa. E’ cercare di convincerci che perché le persone vivano assieme ci sia davvero bisogno della Polizia.E sarebbe ancora peggio se fossero altre persone, amici (già identificati) che erano con te, a dirci come ti chiami. Chiunque sappia chi ora ha l’armadio che puzza, se lo conosce bene gli dica “ridalla a chi ne ha bisogno” e non faccia subito la spia con noi.
Perché stasera i Ministri – per la prima volta dopo oltre 200 concerti – vanno a letto con un amaro in gola che li terrà svegli a guardare il soffitto.
Domani potrebbe essere la domenica pomeriggio più dolce che ci si possa aspettare – quella dove capisci che la gente funziona e che non ha bisogno della Polizia ma solo di parlare.
Ti prego, fai in modo che lo sia.

martedì 12 maggio 2009

Parigi val bene una bomba.

Puzzo di scarpe. Annusavo il corriere omaggio sicuro non venisse da me.
Cielo epico, atlantico. Cielo per rivoluzioni, per eroi popolari vestiti di cenci.
La negra dietro di me sa di fragola sintetica.
Le nostre automobili sono sempre più laviche, colate di metallo senza giunture.
Il motore dell'aereo invece è tutto un rammendo. Lo si rispetta come i giocattoli di latta, ma si fa fatica a immaginarlo reduce da chissà quali test, revisioni e gallerie del vento.
Telefoniamo da astronauti e voliamo da pakistani.
Arrivare nelle città dagli aeroporti. Pianure odiose già prima che parta l'applauso dei burini. Scendi. Grigio audi azzurro banca mouquette strappata alle pizzerie in franchising tubature chic a vista sedili scomodi come il futuro tempi inutili toblerone facce da figli di puttana puttane coi figli annoiati saponi scadenti spumosi schiumosi come l'acqua dei lavandini a fotocellula bombe che nessuno trova e forse ma solo forse qualcuno cerca.
Si prendono treni, navette, shuttle, metropolitane e corriere che puzzano di sedili.
Si tenta una diagnosi sullo stato del paese e della regione dalla condizione degli stessi, e da quanto i sedili sono in orario.
Si guarda fuori dal finestrino e ci si lascia tutto alle spalle, come si stesse scartando in fretta un regalo con decine di strati di carta, ansiosi di scoprire cosa nascondono.
Il fulcro è il guscio di un animale morto.
Il centro storico, quello che la città era.
Finché non si è arrivati all'epicentro di tutto quel cemento, alla luce del quale tutto il resto è prescindibile emanazione, non ci si sbilancia, si evitano sentenze.
Da venti minuti mi passano a fianco binari, cemento, vetri rotti, cavi, senegalese che corre, palo, casa, parcheggio, campetti, dappertutto posti dove nasconderei cadaveri.
Lo fanno apposta, vogliono che Notredame mi appaia più splendente di quanto già è. Eppure.
Negli interstizi lungo i tratti sotterranei della metro non c'è un centimetro libero dalle bombolette. Grotte affrescate che nessuno vedrà mai abitare. Però qualcuno ci arriva lì sotto.
Eccoli gli eroi che il nuvolare atlantico cercava. Si fermava davanti a ciò che per noi ha a fatica la dignità per scorreci accanto.
Lo facciano senza avere un'idea del perché o con una consapevolezza del prima, del dopo e del mentre, sono l'unico segno di vita da De Gaulle a Notredame.
Non che a Notredame ci sia vita, per carità.
Locali zeppi di gente che cerca buone ragioni per essere in ritardo, gli ultimi due bicchieri già bevuti col cappotto addosso - condendo di commiati conversazioni che per altro non andavano da nessuna parte.
Quando ripasserò sei ore dopo, saranno ancora lì. Impossibile tentare di capire se sono gli stessi.
E tutto sommato inutile.

mercoledì 6 maggio 2009

Appunti Piazza Leonardo Da Vinci + Via Farini 59

Gli alberi sono mostruosi, sono alieni che infestano lentamente - così lentamente che non ci accorgiamo di nulla.
Dietro, la mia scuola (ricordi in ordine di apparizione: cortile, maestre chiamate per nome, gol di testa in tuffo su cemento, pane e cioccolato nella merenda del doposcuola quando faceva buio).
Sole che rimani in maglietta e pensi che potresti vivere con ancor meno di quello che già.
Tradotto: non ho un lavoro, e quando sei al parco a quest'ora sei in mezzo ad altri che non ce l'hanno ancora o non più o mai. Tradotto: ora cammino fino alla frontiera con la Svizzera e continuo a camminare e aspetto che qualcuno mi dica qualcosa.
Il fatto è che io non sono italiano. E non sono nato dopo Galileo, e non sono cristiano e non ho debiti con gli affreschi e i palazzi vecchi.
Io non ho il dovere di sapere nulla. Io faccio promesse, prometto di essere in un posto o nell'altro ogni giorno.
Punto.
Questa sera si parlava di guerra fredda e di come si sgancia una bomba atomica (si pensava: cadrà giù come un vaso) e intanto le spore schivavano i lampioni travestite da effetto speciale.
Poi torni a casa, trovi per strada un asino di peluche a dondolo pronto ad essere rapito dall'Amsa, lo porti su, aggiorni il blog e ti chiedi perché, mentre pensi a scavalcare le dogane, ancora ti fermi a raccogliere.

martedì 5 maggio 2009

appunti sulla milanovenezia #1

I cartelli dell'autostrada sono prati. Lunghi fili tra i tralicci e morbidi.
Il mondo fuori va a centotrentaallora e può venirci addosso. Tutto va a centrotentallora, anche i bambini che mangiano il gelato e il gelato che fanno cadere.
Cambiare le gomme alle autogrigie fa male alle gomme.
I pullman dell'esercito sono verde militare. Ma qui non esistono boschi così verdi e non esistono boschi verdi così.
Riusciranno a mimetizzarsi solo tra altri veicoli militari.
E infatti lì vanno e da lì vengono. Portare un enorme semaforo sopra un cavalcavia e accenderlo. Cosa ti possono fare?
Tutti si fermeranno e scopriranno perché la gente fa i pic-nic di fianco alle autostrade. Metteremo il freno a mano e si andrà nelle case di chi vive di fianco alle autostrade per scoprire come si vive nelle case di fianco alle autostrade.
Ma perché tutti possano sentire, tutti dovrebbero fermarsi - e nessuno sentirebbe più niente.

mercoledì 8 aprile 2009

Blu Tormentone

(già pubblicato come editoriale sul portale di Alice. Però - povero - mica poteva rimaner fuori dal bloggone ministrico)

Il frigo dei gelati c’è quello che è rimasto.
Bar della spiaggia, saltellare sulla sabbia quanto cazzo scotta, a me prendi un ghiacciolo blu, il calcetto e quelli che non lo lasciano mai. Cosa ci faccio qui, dove sono le mie vacanze verità radical sob? Eppure.
Facciamo che me la godo. Birra, tavolo, sizza – questa sì che é.
Sedicenne con perizoma ho capito cosa vuol dire perizoma (avràdodiciannni, avrà).
Avrà quando? Continuo a guardarmi intorno: parete patatine con ultimi ritrovati nel campo delle, pazzol babbol, compagnia del luogo di ragazzi abbronzati da Aprile che sembrano conoscere perizoma di cui sopra.
E io sono nel quadro. Da fuori: studente milanese, sovrappeso, scottato spalle, possibilità farsi offrire bere, battere a calcetto, vendere fumaccio. D’improvviso.
La radio, il tormentone. Barista alza commentando bella questa. Si agita il perizoma, vocio dei paesani, si muove persino il culo di quella (quello?) a pazzol babbol.
Ma il video l’hai visto/guarda che è il remics di un pezzo vecchio/io il balletto lo so tutto/gente che canta/gente che canta. Taccio.
Io l’ho visto il video, no non è un remix, è una mezza porcata di pop spagnolo che solo gli spagnoli riescono a far peggio di noi (cazzo: la strofa non mi dispiace).
Occhi bassi, passerà. Ma nel baretto funziona tutto meglio, per tre minuti due secondi radio edit version. Gente che si canta in faccia, perizoma balla con vero trasporto (tra due settimane l’estate sgocciolerà e lei tornerà qui e ballerà sul tormentone e sarà già triste). Che faccio.
Avessi con me un libro di Proust, potrei almeno fare lo stronzo. Ma forse lo sembro già stando zitto.Fa cagare questa birra. E fa un caldo del cazzo, in spiaggia non c’è niente da fare, lo sapevo che non. Torno agli asciugamani. I miei amici sono degli alternativi (così si parlava quindici estati fa). Mi daranno un’alternativa, a spiaggia-perizoma-tormentone. Un’alternativa. E invece: 4 corpi stesi al sole, sei cuffie, i loro i nostri tormentoni, nessuno che canta, che balli figurati, trampo’ andiamo a fare il bagno.
Cazzo, ora torno indietro e dico: c’è un’alternativa a questo bar e a questa musica e al senso di vuoto che tra un mese vi assalirà. C’è un’alternativa e NON è quella dei miei amici. C’è un’alternativa e non so ancora qual è.
Forse è costruire un altro bar allegro come lo è questo adesso.
No, quello blu non c’era.

mercoledì 4 marzo 2009

La Casa Brucia

Era scritto su un muro della Sorbonne nel 68. Dice tutto.
Se scrivessimo sui muri anche noi invece che scrivere canzoni sarebbe durata un attimo.
E invece.

L'odore che si respira adesso per strada è quello che si respira a casa delle nonne che non si sopportano (di solito, almeno una delle due).
Di quelle coi centrotavola col vassoio silver di caramelle al miele.
E infatti la nonna è là fuori.
E' la sala da bingo che ti apre sotto casa, il cartellone sei per dieci che ti invita a scommettere (cito: A Natale sono tutti più buoni, alcuni più ricchi - complimenti davvero), la parata dell'esercito, il cerone, il rossetto, le pubblicità con Manuela Arcuri, le vecchie coi capelli blu, duemila universitari che cantano a squarciagola com'è bello far l'amore da Trieste in giù,la gente persa davanti ai videopoker mentre prendi il cappuccio e ti dimentichi che lo stato guadagna anche sui quei quattro disperati,Tiziana Maiolo, le trasmissioni in cui il conduttore è in giacca e cravatta e quella che gli sta a fianco è in bikini e non capisci chi dei due ha sbagliato a vestirsi prima di uscire di casa.
Il basso impero è un progetto, non un'eventualità.
La Casa Brucia è un lampione rotto con la fionda, è una tag sul citofono.
Prima di riempirsi la bocca di grandi battaglie, sarebbe bello vedere un po' di onestà e coraggio in quelle più piccole.
Alzare la voce prima di alzare le mani, ché lo zucchero nella benzina fa più danni di un fiammifero.
Dubito che qualcuno possa usare il pezzo come colonna sonora per bruciare qualcosa - ma per svegliare i vicini va benissimo.
A un nostro concerto qualcuno ha detto:
I vecchi bisognerebbe ucciderli da piccoli.
Quotiamo.

NB. Il tema iniziale a tre voci - suonato con un solo dito (per volta) - è una rivisitazione del Pinocchio di Comencini.
Ci faceva venire in mente le guardie.

domenica 1 marzo 2009

Diritto al Tetto

Mio fratello lavorava al Sert.
Ogni sera arrivava a casa con storie di poveri diavoli sospesi ai confini della società, orbitanti attorno alla stazione per una dose di eroina (cinque euro in zona centrale, meno di un big mac menu).
Tra gli altri, c'era un clochard con problemi (tra gli altri) di alcolismo.
Capita che un giorno viene beccato a rubare non si sa bene quale inezia.
Viene processato e messo agli arresti domiciliari.
Sorpresa: il domicilio non c'è. E le carceri son piene.
Ecco dunque che il nostro eroe viene sistemato su una panchina – in Piazza Ferravilla, per la cronaca – e su quella deve farsi trovare per i 365 giorni consecutivi. A qualsiasi ora, con qualsiasi tempo.
Come un normale arresto domiciliare.
Solo che lì mancava il tetto.
Un giorno come un altro, il Nostro deve fare quella grossa e si rintana dietro a un cespuglio per depositare.
Qualche metro più in là passano le guardie.
Trovano la panchina vuota.
Tirano dritto.
Il giorno dopo tornano e lo arrestano.
Il problema non è solo il diritto al tetto, ma anche il diritto a non averne uno.

giovedì 26 febbraio 2009

Bevo

Prendete due paesini di venti case ciascuno. Uno ha il fruttivendolo e l'ambulatorio medico l'altro ha il bar.
Quale dei due è frazione dell'altro? La risposta è ovvia. Viene riassunta spesso nel ritornello "Perchè in Italia l'alcol è cultura".
No, l'alcol è una sostanza. Una droga, per usare la terminologia di chi ha paura delle sostanze.
E inebriarsi con le sostanze non è cultura, è natura.
Bevo perché mi piacciono gli effetti dell'alcool, diciamolo.
E diciamo anche che l'orologio dell'Italia è mosso dall'alcol stesso: uscire la sera coincide col consumare collettivamente alcol e qualsiasi rito o festeggiamento ne prevede l'assunzione - dalla messa alla laurea.
Quindi, si beve e nessuno si chiede perché. Poi ci si schianta e tutti si chiedono perché.
In un paese in cui tutti la sera bevono, sai che sorpresa trovare dell'alcol nel sangue.
Se esco non posso far altro che bere. Se bevo credo di poter far tutto, anche mettermi al volante.
Guarda che t'ammazzi - mi dicono le pubblicità progresso - fatte probabilmente coi soldi che lo stato guadagna su ogni singola bottiglia d'alcol venduta. E mi dicono fai guidare qualcunaltro. Come dire ciccio, la soluzione trovatela tu, noi di mestiere facciamo le multe, contiamo i morti e facciamo monopoli.
Ma il senso della misura non è cosa che abbia a che fare con questo mondo: chi vende alcol vuole che se ne venda sempre di più e non riuscirà mai a essere credibile nel dirmi "bevi il giusto". E così tutti lo bevono, tutti lo spacciano (impossibile trovare un prodotto meglio distribuito: dal bar sotto casa che dispensa bianchini, ai grandi sponsor alcolici che amano accapparrarsi i festival e gli eventi con target 14-20), tutti prima o poi si schianteranno.
Smettere di bere non è la soluzione, smettere di bere è la scelta di chi in fin dei conti non ama bere.
I Ministri bevono e lo dicono nel pezzo almeno un centinaio di volte. Spesso hanno guidato - come quasi tutti - ubriachi o alticci.
Spesso si sono chiesti perché avessero bevuto così tanto. Ma i Ministri nella vita non fanno soldi con l'alcol.
Chi li fa, corra ai ripari, se qualcuno davvero vuole riparare qualcosa.
Niente più modelle con ombelichi tappati e niente più macchine accartocciate: al loro posto grossi pullman della Campari, Molinari, Absolut che riportino a casa tutti quelli che non riescono più a guidare. Pullman pieni zeppi di gente ubriaca che urla, canta, scopa tra i sedili e si abbraccia.
Sarebbe uno spettacolo orribile, ma finalmente onesto.

lunedì 23 febbraio 2009

Il Bel Canto

Il Bel Canto è un flusso di coscienza. E' chiedersi se un bivio ci sia
mai stato - o se la volontà non sia che il fantasma tardivo di
meccanismi inevitabili. Le parole mischiano la mia realtà di ogni giorno, con la realtà di qualsiasi mio coetaneo - e nello scoprirle così sorprendentemente simili c'è molto dello stupore del pezzo. Che è nato in Italia: in altri paesi avrebbe avuto altre parole.
Parafrasando liberamente.

Avevo un letto a soppalco dell'Ikea, per cambiarlo aspettavo che crollasse. Come un figlio: se ne avrò uno, difficile che l'abbia scelto.Mi crollerà addosso.
Ho chiuso con te perché ci volevamo bene e non riuscivamo a darcene.
E perché a Milano gli innamorati passeggiano tra le corsie della Fnac - e NON è la stessa cosa.
Suono la chitarra da quando ho 14 anni e non ho mai dico mai suonato un pezzo di Battisti. Come uno stalinista che dava del fascista a chicantasse Non è francesca. Battisti è una vittima innocente, ma il recupero, il riabilitare tutto ciò che la sinistra aveva - con modi fascisti - vietato, ha riportato in vita la Rettore, la Carrà e sabrina Salerno, tenendo altresì in vita gente come Guccini o De Gregori - neo-skipper con la barba da anarchici.E mentre si riaprono le tombe, si prepara quella del Pianeta e la si riempie di fiori. Perché la gente vuole sentire parlar dell'ambiente - degli alberi che muoiono, dell'ozono col buco e della terra che sta male.
La terra. Ma la terra sta benone.
La terra è un sasso allagato: si ghiaccerà, si ustionerà, esploderà o ridiventerà piatta.
Chissenefrega. La terra è una scusa.Chissenefrega, quindi mi drogo. E alla frontiera mi fanno tirar giù le mutande per vedere se mi credo così furbo. Ma non scherziamo:guardatemi in faccia, sarei io il vostro uomo? Anche Mondo Marcio capirebbe che sono cresciuto sul parquet. E allora cosa? E allora, cherchez la femme. Che, portato a un livello governativo, vuol dire che vi va benissimo che mi drogo e ho paura quando vi vedo. Meglio di certo che se non mi drogassi affatto.E vi va bene anche che io sia cresciuto con la pornografia - che è istinto senza desiderio. Come quello che ho quando entro (entravo) in un negozio di dischi e ne uscivo con qualcosa in mano. Perché cazzo ho comprato un disco dei Linkin Park? Perché ho voglia di comprare, del gesto, di pagare, di placarmi.E così l'alcol, che è quella cosa che non devi bere prima di guidare ma che DEVI bere in qualsiasi altro momento.Finisce che il mio gruppo indie firma per una major e mi metto il cuore in pace. E infatti. Avevamo scelto noi come vestirci, ora ci vestiranno loro.E torneremo a casa con meno preoccupazioni, torneremo a cucire davanti alla tv - torneremo a studiare economia domestica.Si finisce urlando, ma mica perché si è capito qualcosa. Solo perché il nostro modo di esprimerci - anche nel dissenso - non può che avere le stesse forme della realtà. E così vedi quelli di 15 anni che aprono quindici finestre sullo schermo del portatile e stanno dietro a quindici conversazioni diverse.Perché Alberto Sordi ce lo meritiamo - urlava Moretti, come a dire che la massima rappresentazione che l'Italia ha raggiunto di sè stessa è la mediocrità.Falso, la massima espressione sono le stragi. Ovvero mediocrità+mafia+la paura di non riuscire a reggere una guerra civile. O più semplicemente, non decidere mai. Guardarsi indietro e dire era quello il momento di rispondere.

giovedì 19 febbraio 2009

Vicenza (la voglio anch'io una base a)

Mancano 300 giorni, 22 ore, 37 minuti e 22 secondi.
Ora più secondo meno, così recitava il timer di Trenitalia eretto come
un'Ara Pacis davanti a Stazione Centrale.
L'evento che fa da zero a quel tuttora in corso conto alla rovescia è
scritto sopra a chiare lettere.
Soltanto un'ora in treno da Milano a Bologna.
Bella, ci metto mezzora in meno.
Quindi il punto è metterci meno.
Anzi, metterci sempre meno.
Tra cinque anni ci metteremo mezzora, tra dieci basteranno dieci minuti.
Ma quando il tempo per raggiungere Bologna sarà trascurabile, quando
sarà prossimo allo zero, che senso avrà andare a Bologna?
Per mangiare i tortellini, dirà qualcuno.
Ennò.
Perché anche i tortellini - per fare da Bologna a Milano - ci
metteranno un secondo.
Finirà che si sposteranno solo le merci - e noi rimarremo immobili.
Il che già succede.
Prima andavi a comprare il pane da una parte e il prosciutto
dall'altra, ora entri all'ipercoop o chi per esso - e ci trovi anche
il prete per sposarti.
Opporsi a questo modo di produzione è un'impresa titanica.
E' come avere l'influenza, non riuscire ad alzarsi dal letto e dover
scegliere le marche dell'antibiotico in base ai dettami di Naomi
Klein.
Chi non regge a questo catechismo no-global (cioè quasi tutti, noi
spesso compresi) si ritrova pian piano a funzionare secondo le stesse
logiche.
Si ritrova a volere anche lui una base a vicenza.

lunedì 16 febbraio 2009

E Se Poi Si Spegne Tutto

Da piccolo vedevo i cani-lupo e chiedevo ma i lupi-lupi come sono
fatti? Mi dicevano che erano molto diversi, ma che non ce n'erano più.Ne vidi uno in Toscana, in un quasi zoo: era magro e smunto, stava in piedi a fatica. Ma era un lupo, cazzo.
La mia idea di catastrofe energetica, del giorno in cui si spegnerà tutto, è più o meno così: desolazione e lupi - magri e incazzati. Ci troveremo lì io e te -chiunque tu sia, ma a occhio sarai una che neanche sa accendere il gas - a dover accendere il fuoco per tenerli lontani. Non avrai più telefonino o bilancia, avrai una faccia orribile e dolori in posti che non sapevi. Ti farai il bagno in un laghetto e ti si attaccheranno addosso le sanguisughe - altro animale mitico per chi è cresciuto in città. Saremo tutti sparsi e malati, nulla di ciò che conta ora conterà. Col tempo riusciremo a ritrovarci, a riunirci. E a sentirci bene nel sentirci l'uno uguale all'altro. Poi forse tutto degenererà di nuovo, con gli stessi tempi e modi di come è stato. Ma forse no.

martedì 10 febbraio 2009

Il futuro è una trappola

Lasciare accese le luci è una rivincita contro le pantere,
i coccodrilli sotto la palafitta e qualsiasi altra maledetta creatura ci abbia minacciato dalla creazione a sei secoli fa.
Questo volevamo: far noi la luce, deciderla, disporne.
Piegare la natura.
Ovvio che ora sia diventata pigrizia - perché la pigrizia altro non è che abitudine al potere.
Le lasci accese, tua madre impreca perchè quando-andrai-a-vivere-da-solo-e-la.pagherai-tu-la-luce-voglio-vedere-se.
Vai a vivere da solo e continui a lasciarle accese.
E dici credevo di non essere l'ultimo.
Che poi è quello che ci dicono ora: risparmia perché verrà qualcuno dopo di te - e avrà bisogno di luce come te.
Come dire che lo scopo del mondo è di farlo durare.
Anzi, il nostro scopo.
Perché quello di chi ci ha preceduto era un altro.
Ma nessuno di loro dice ho sbagliato. Si dice solo pensate al vostro futuro.
Te lo dicono quelli che per ogni concerto di merda che organizzano riforestano un pezzo di sudamerica (dove magari si sentono già abbastanza forestati per i cazzi loro). Pensate al vostro futuro.
Ma il futuro l'avete inventato voi - l'avete inventato e distrutto voi.
Io accetto di sentirmi dire spegni la luce solo da chi le luci le ha sempre spente per davvero.
Come mia madre.

venerdì 6 febbraio 2009

La Faccia Di Briatore

Ai giornali servono le facce.
Per dieci pagine di pubblicità vendute,ce ne devono essere quindici di facce.
Il dominio della faccia è così clamoroso che il primo vero richiamo attrattivo delle riviste con le foto di paparazzi è quello di vedere finalmente i corpi, le schiene, le ginocchia, i piedi - non più solo le facce.
E i corpi sono spesso umani, terribili.
Come il corpo di Briatore - un panzone coi capelli bianchi che potrebbe tranquillamente essere il tuo tabaccaio.
Eppure la faccia di Briatore funziona.
Anche se tutti sanno come imperfettamente prosegua sotto.
Perchè.
Perchè nessuno si ricorda una sola frase, un gesto, una parola,
un'azione di Briatore: ma tutti se lo ricordano con al fianco incredibili e indiscutibili figone.
Come dire che la faccia di Briatore, prima di piacere, è già piaciuta.
Questa è la sua forza: aver già dimostrato di funzionare, prima di essere messa sul giornale.
Cosicché, una volta che te la trovi davanti, pensi questa faccia funziona - che sembra un giudizio, e invece è solo un assenso.
I molti soldi che di certo ha non responsabili della sua popolarità se non per l'investimento iniziale - ossia l'aver di fianco le figone.
D'altra parte, chi altri si potrebbe mai proporre?
Chi altro sarebbe così indiscutibilmente adatto per stare su una copertina?
Indiscutibilmente, perché il vero effetto che fa Briatore è di rendere inutile ogni discussione.
La gente non aspetta altro che il non dover più discutere.
I giornali e chi ci mette la pubblicità non chiedono altro che la
gente smetta di discutere.

mercoledì 28 gennaio 2009

Mangiare insieme.

Perché dobbiamo mangiare insieme?
Mi alzo da tavola e alzo la voce.
La domanda è spudorata, la risposta è nota - ed è noto che convenga non dirla.
Si mangia insieme, punto.
Come leoni che dilaniano una gazzella, come le anatre che si azzuffano, come gli elefanti e le formiche.
Si mangia per sopravvivere, si mangia insieme per sopravvivere insieme.
Si resiste, insomma.
Lo dice la tavola apparecchiata: il pasto cristiano è a numero chiuso.
Al centro non c'è la gazzella, ma attorno bisognerà sembrar leoni.
Perché là fuori altre famiglie hanno apparecchiato e altre famiglie tentano di tenere insieme i pezzi.
Teniamo insieme i nostri. Da soli non riusciremmo a mangiare: troveremmo solo tavole già apparecchiate.
Le direi di sedersi ma c'è da mangiare solo per noi.
E così ci si riempie i bicchieri d'odio e li si butta giù col naso tappato, fino ad ubriacarsene e abbracciarsi quando è finalmente giunto il momento di tornare a casa.
Quando hai otto anni incassi.
Quando ne hai quindici o smetti di mangiare o bestemmi o incassi.
Quando ne hai venti ti dicono che non vale la pena, che crescere vuol dire incassare.
Quando ne hai molti di più, sei tu a dover dire
sediamoci
parliamo di qualcosaltro
siamo a tavola.

venerdì 23 gennaio 2009

Grossi Insetti Dovunque

Gli scudi non ti stanno dicendo resisterò, né attaccami: dicono non puoi nulla.

E ti dicono il nome – perché era l’unico spazio rimasto per scrivercelo. Ovvero, carabinieri – in diagonale, come per un timido slancio futurista del designer antisommossa.

Non ce l’ho con te, pensi penseresti ne avessi di fronte solo uno. Ce l’ho con te tutti pensi. Bloccano la strada, proseguono con le spalle la facciata di un teatro abituato a veder vecchie impellicciate la sera e vecchie impellicciate – ma dell’unica che hanno - la mattina.

Arrivo che non si vedono che loro. C’è il sole, abbastanza da far brillare i caschi e rinunciare a contarli. Fatemi passare quello è mio figlio non funziona. Dietro di loro ce ne sono solo altri e altri e altri e il Conchetta ferito e altri. La kefiah basta a evitare confusioni sulla natura del mio sguardo. E poi guarda che capelli lunghi ha.

Sul loro c’è scritto noi – semplicemente – abbiamo le armi. Punto. Tutto qui. E tu non sei un’arma, sei un corpo che si può trascinare per terra senza che vengano fuori i lividi. Faccio il giro. Dall’altra parte sono siamo in tanti, e loro pure. Muoviamoci. E muovendosi ci si sente valanghe che ingrassano di metro in metro. Fermi le macchine e sorridi, ti senti in mezzo a un branco di deficienti che hanno finalmente imparato a far le bolle di sapone e ne fai tante da intasare i motori degli aerei e farli crollare nell’oceano. Anche perché il misto di serietà e gioia che ti fa sentire così bello, da fuorideve sembrare pericoloso. Siamo un’arma, finalmente.

In via Vigevano tentano il sorpasso sulla destra, correndo goffi sul marciapiede – appena ingobbiti come bambini che giocando a sparviero credono ricurvi d’esser più rapidi.

Sono finalmente meno. Gli insulti si fanno personali, perché si vedono le facce – e se fossero abbastanza scoperti da svelare difetti fisicie malformazioni non esiteresti ad approfittarne. Si battono i piedi e a tempo li vedi tremare coi loro begli scudi firmati. L’odio il mio il nostro funziona solo quando ne hai davanti di più. Ora è già diventato altro. E’ potere, e credi di poterlo maneggiare – perché hai visto quanto logora. Qualcuno conferma il contrario e già pensi al peggio quando il nemico al fine si rimpolpa, e di nuovo ritorni minoranza.

Nemico perché in fin dei conti gioco è. Da dove la vuoi guardare, sei cresciuto trattenendoti dal tirar le cose a tavola – perché gliadulti sono tali prima di tutto perché non si tirano le cose. E invece qui tutti si tirano/tirerebbero le cose. Quindi loro SONO il nemico. E vaffanculo.Tu ti muovi e loro ti seguono come grossi insetti. Per lunghissimi attimi è esattamente così. Seguono lunghe sbronze di civilismo, di sentirsi cittadini –e ci si rimbocca la tunica come chi sta andando a deliberare nella boulé. Che dovrebbe essere insieme punto di partenza e di arrivo della Storia Nostra. Ma dove comincia la ragione qualcos'altro è finito. E sei di nuovo uno, gli altri sono altri e non vedi più trecento cuori – vedi trecento orgogli.