lunedì 28 settembre 2009

Due parole sul video di Briatore.

Il caso ha voluto che il video de La Faccia Di Briatore esca in un momento
in cui i media non hanno più nessun buon motivo per farla vedere - la faccia di Briatore. Le tristementi note vicissitudini del Flavio nazionale l'hanno di certo
resa scura - e non più abbronzata come eravamo abituati a vederla.
E nessuno vuole vedere una faccia scura.

Proprio da questo bisogno di facce abbronzate nacque più di un anno fa il testo de La Faccia Di Briatore: il profeta che avevamo scegliemmo per i Tempi Bui aveva il volto luminoso e inspiegabilmente vincente.
Inspiegabilmente, appunto. Flavio era dovunque, rimbalzava dai giornali alle tivù alle hompage dei portali - quasi sempre per accompagnare le cronache delle sue vacanze.
Chiedersi dove andasse, pareva esser compito dei giornali; chiedersi perché occupasse tanta parte degli spazi dei mezzi d'informazione fu compito, tra gli altri, dei sottoscritti.
Ma tra gli altri c'era anche Medici Senza Frontiere, che nello stesso periodo pubblicava uno studio che evidenziava come le ferie di Flavio ricevessero dai media il triplo dell'attenzione rispetto a conflitti e epidemie gravissime che sconvolgevano il Myanmar, il Congo, lo Zimbabwe e probabilmente parte della Storia stessa.
Come titolò Repubblica, Briatore batte Darfur.
Il video de La Faccia Di Briatore non fa che materializzare questa affinità di sguardo tra noi e Medici Senza Frontiere.
Ovvero semplicemente chiedersi che cosa non ci stanno facendo vedere.
E rispondendosi con crudezza - gli estratti eccezionali e inediti estratti dagli archivi di Medici Senza Frontiere che interrompono il video - e fiducia - mostrando i volti della gente, chiamata tramite Myspace e Facebook a metterci la faccia, per l'appunto.
Come fosse un semplice link, il video invita a guardare altrove, a guardarsi attorno e a capire che anche noi siamo responsabili dei contenuti dei nostri tempi. Chissà che un giorno non se ne accorgano anche i media.

Si ringraziano di nuovo il regista Alberto Sansone, Sergio Cecchini a MSF e i fedelissimi che sono venuti posare per noi, qualcuno facendosi tipo cinque ore di Trenitalia. Hai detto niente.

http://www.youtube.com/watch?v=29Hy61vDPdQ

domenica 20 settembre 2009

Il bisogno di nemici.

lunapark

L’inno. Il loro. Ma noi chi siamo?
Sentito alla radio che prende male, fuori il luna park dell’Idroscalo sotto la pioggia, è più tetro di quanto non si possa permettere d’essere.
Il trucco si scioglie ma viene raccolto in appositi contenitori, da conservarsi in luogo asciutto lontano da fonti di calore.
La libertà non è più cosa mia, tenetevela, vi esploderà in mano.
Questo – il luna park chiuso e umido - è il posto giusto per sentir rinascere il fascismo.
Non me l’ero sognato così. Il fascismo che aspetto da quando ho imparato a parlare era più scuro in viso. Certo, avrei potuto sognarlo meglio. Avrei potuto sognarlo con due teste, e invece qui non ce n’è neanche una. Lo vedevo ovunque – polizia, professori, zarri del campetto, imborghesiti, arricchiti, politicanti, madri, padri. Con un ventaglio così ampio, era difficile toppare: controllavamo il fronte dalle nostre quattro mura e urlavamo al duce al duce quando vedevamo qualcosa di sospetto.
Andavamo a letto ricontando quanti allarmi avevamo dato, e mi stupivo nello scoprire che la loro frequenza si abbassava drasticamente nei giorni di festa, all’ora di pranzo e nelle giornate di sole. Io ero sulla muraglia rivolta ad est.
Appena sotto sfilavano – ogni mercoledì sera – i nazisti di Piazzale Susa. Fiaccolate lungo i giardini di viale argonne – dove qualche anno prima andavo per giostre, dove qualche anno dopo sarei andato per hashish.
Non che le abbia mai viste le fiaccole. Avevo appena imparato a non aver paura dei tedeschi (chi mi aveva cresciuto con la paura dei tedeschi?), ero sgusciato via da elementari e medie schivando risse, schiaffi, sigarette e gente che ci si vede fuori.
I nazisti venivano a colmare una sopraggiunta mancanza, sfilavano per ricordarmi una presunta grande verità: là fuori c’è qualcuno che indipendentemente dalle tue azioni ha una gran voglia di pestarti. Grazie, me ne ricorderò.
E intanto nessuno mi pestava. Uno schiaffo, che risuonò nel corridoio del liceo come uno stiamo arrivando. Nulla più.

mercoledì 9 settembre 2009

Il Mio Telefonino o dell’impresentabile arma di distruzione di massa

telefonino


Avevo bisogno di un nuovo telefonino. Falso. Ma avevo bisogno.
Ero sciupato e freddo, volevo un commesso che mi dicesse le sta benissimo.
Pensavo che con un telefonino VERO, contemporaneo, avrei dovuto vestirmi meglio – l’avrei fatto per lui, per non farlo sentire in imbarazzo quando l’avessi tirato fuori dal buio delle mie tasche.
Non ne parlo a nessuno, zitto e veloce mi infilo in un MediaOrco per farmi aggiornare e ripulire.
E’ mattina, intorno solo brufoli che bigiano giocando a isspro e commessi che hanno lasciato la scuola per un lavoro che permette loro di giocare a isspro in pausa pranzo.
Rinuncio a esporre il mio dramma. Confuso come un amish in un solarium lascio l’impronta dei miei ditoni sulle teche di vetro che custodiscono tot milioni di megapixel, asterischi, cancelletti.
Esco dall’orrendo tempio mezzora dopo, sudato, confuso e con un Nokia grosso come una fetta di plumcake, volgare, tozzo, pitturato da fior di fragola e con una suoneria da far invidia a Radio Rakim.
La situazione non è migliorata. E’ impresentabile quanto me.
Estrarlo in luoghi affollati è dire l’ho scelto. E per tre mesi chiunque mi chiami non sa di azionare settanta decibel di Buddy Holly dei Weezer, ch’io sia a un funerale o alle poste.
Poi, una notte di quelle che non si dovrebbero guidare neanche i risciò, lo lancio nell’Idroscalo e adiacenze. Per vedere l’effetto che fa.
Quando mi riprendo, sono impresentabile e irrangiungibile.
Passano due giorni e una santa, impietosita dal racconto e dal narratore, estrae un telefonino dalla borsa e mi dice tieni, è tuo.
Un Nokia e rieccoci ma di quelli vecchi che non si rompevano neanche se.
Infatti, tuttora.
Ed eccoci al punto.
EasyJet Milano-Catania – ma vale un volo qualsiasi per un luogo qualsiasi.
Ti siedi col sacchetto per il vomito davanti e le maschere di ossigeno sopra – non esattamente auguri di buon viaggio - e una voce dice da questo momento dovete spegnere tutti i telefoni cellulari e apparecchi elettronici come etc etc.
Tutti i telefoni cellulari vuol dire anche il mio.
Bene.
Devo credere dunque che l’uccello di latta che mi porterà a diecimila metri sopra il livello del mare ma peggio ancora al livello dei sassi abbia da temere dal mio Nokia con fotocamera da 20 k?
Tutti i vostri salvagenti, giubbotti, scivoli, figli di puttana che mi fanno buttare lo shampoo, metal detector che cercano vibratori, taglierini e candelotti di Wile Coyote, tutte le vostre uscite di emergenza, le pistole portate nel fodero da cani e porci e porci con cani, le lucine in cabina, le hostess materne esperte di kung fu, le vostre gallerie del vento, i librettini da video di Royksopp che ti dicono come salvarti se l’aereo precipita da trenta metri di altezza su una spiaggia delle microcicladi, tutta la vostra sicurezza del cazzo.
Tutto e tutto e tutte in balia del mio cellulare e del suo tastino gommoso e rincagnato che a fatica convinco con l’unghia?
Peggio ancora: io d’improvviso eletto mastro burattinaio della vita di questi italioti, turistacci, suore (tua), complessini, piloti e managerotti. Io decido della loro vita.
Ditelo da quell’altoparlante, ditelo se è vero che ognuno è dunque responsabile della vita di tutti gli altri, finite la frase.
Perché nessuno mi fruga nelle tasche? Perché non mi dite perché devo spegnerlo, quali sarebbero le conseguenze del tenerlo acceso? Perché nessuno controlla? Perché non me lo fate buttare in una cesta, perché non lasciate che ognuno sfoggi il suo telefonino spento, perché non lasciate che i miei vicini di posto lato finestrino grazie che soffro il volo ridano del mio telefonino?
Se solo l’hostess fosse tenuta a portarmi qualcosa da mangiare, le lascerei sul riso scotto un bigliettino con su scritto non l’ho spento e non lo spegnerò.
Lo squillo, l’orrenda suoneria Bluesquares che parte (ta ta tara, tattara tatta ta) e poi l’esplosione.
La scatola nera che registra tutto. I telegiornali che la mettono come colonna sonora mentre elencano i nomi delle vittime. Il giorno dopo migliaia di talebani e americani con la barba da talebani fanno esplodere migliaia di aerei a colpi di sms e chiamate con l’addebito.
Non succederà, perché la sicurezza è solo la voglia di avere dei guardiani.
L’hostess lo sa e si mangia il biglietto – tanto la sua dieta è di poco migliore.
E io resto seduto, con in tasca un’arma di distruzione di massa che nessuno ha voglia di disinnescare.

martedì 1 settembre 2009

Dei signori.

Sei in camerino a riprendere fiato e a giurare che quest'inverno farai le corse nel parco, e ti arriva questo.
Accompagnato da tre bottiglie di Champagne, cazzo.

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