martedì 13 dicembre 2011

Il Nastro della discordia.


La cassiera non sa se chiamarmi ragazzo o signore.
Ho 29 anni e non c'è una parola per me - non perlomeno per i rapporti rapidi e funzionali del supermercato.
Me ne accorgo dopo aver constatato un'altra grave mancanza: un verbo che indichi l'azione del mettere la spesa sul nastro - in un momento in cui tra l'altro la spesa non è ancora tale, ma è solo un ammasso di prodotti selezionati per i quali si ha intenzione di spendere.
Non sono neanche sicuro che si chiami nastro, e in ogni caso mi troverei in imbarazzo a dire a qualcuno "ehi, metti le cose sul nastro".
Suona proprio male.
E non si parla nemmeno di un momento neutro del vivere quotidiano: mettere le cose sul nastro implica un rapporto delicatissimo con chi ti precede e chi ti succederà.
Chi ti precede è quasi sicuramente una vecchina tignosa che non aspetta altro che poter delimitare la sua spesa sul nastro con quei divisori di plastica (trovate un nome anche a questi, please), nel timore che tu possa infilare una caciotta nel suo conto e farla franca.
In effetti, credo nessuno ci abbia mai nemmeno provato, ma per qualche motivo quel nastro risveglia le peggiori paranoie degli over 60.
Quanti sacchetti? Pago e scivolo verso la coda della cassa, che complessivamente vista da sopra probabilmente deve ricordare una portaerei.
Mi prendo un altro "ma va là che sei giovane" dalla cassiera, che raccoglie cenni d'assenso tutt'intorno - escludendo tout court dalla conversazione un'età di mezzo che possa veramente definirsi tale.
Quando finisco di essere giovane divento direttamente vecchio?
Lacune linguistiche di questo genere sono il riflesso del profondo disagio di un Paese tenuto in mano da gente che potrebbe far coppia con mia nonna a bridge.
E con la quale ahinoi dobbiamo comunque cercare di comunicare.
Il problema è che in Italia il codice lo decidono loro, e si tengono stretti le loro parole quasi quanto le poltrone.
Puoi inventare slang e gerghi d'ogni sorta, ma solo per cospirare senza essere capito: le strutture linguistiche con le quali l'Italia pensa se stessa non sono nelle tue mani.
Finisce che per restare a tavola devi far tue quelle parole, e man mano che le mastichi ti dimentichi di chi te le ha messe in bocca.
Finisce che alle feste dell'Unità d'estate i giovani decidono di chiamare il loro risicatissimo angolo di libertà "Spazio Giovani".
Finisce che per rivendicare i tuoi diritti, usi le categorie e le espressioni di chi te li sta togliendo.
La musica, che in Italia è più che mai considerata il grande trastullo dei giovani, ignari di ciò che li attende, soffre più che mai di questo monopolio.
Il paradigma della maturità regna incontrastato nell'analisi di qualsivoglia fenomeno musicale: addetti ai lavori di lunga data - la maggior parte dei quali ormai senza lavoro - dibattono su quale sia il grado di maturità raggiunto da una band o da un artista su un misterioso Maturometro governato da criteri il più delle volte ignoti e in mano a gente così matura da vivere scrivendo di gente che suona.
Il processo del Maturometro vuole che per un periodo non meglio specificato si galleggi in una sorta di lento divenire - che tende genitorialmente a valori vaghi e tutt'altro che millenari come la sobrietà, la misura, il gusto, il contegno.
Più o meno gli stessi che, a modo suo, ha in testa la vecchietta tignosa.
Raggiunta la suddetta maturità (che poi, per qualche motivo, sembra irreversibile: si è mai sentito di un artista maturo che all'improvviso ha smesso di essere tale?), si possono continuare a fare dischi uguali uno all'altro, o all'occorrenza uno più brutto dell'altro, senza dipendere più da alcun tipo di giudizio.
Semplicemente si è diventati vecchi, ovvero padroni della lingua e di tutto quello che ne consegue.
Nella mia città anche i ritmi di sonno e veglia sono decisi da chi su questo mondo ha già passato molto più della metà del tempo a sua disposizione.
Il ritornello è che sono stati giovani anche loro, che divertirsi va bene ma, che la musica è bella ma la musica non il baccano, che a quest'ora si dorme.
Le conseguenze concrete sono sotto gli occhi di tutti, ma anche le parole ne risentono.
Succede che molte band, pur di suonare da qualche parte, cerchino nuovi vestiti con cui presentarsi ai locali.
Il vestito prediletto prende il nome di in acustico - termine vago come le mie interrogazioni di matematica al liceo che vorrebbe contrapporsi idealmente a in elettrico.
Tecnicamente acustico in questa accezione è un retronimo, ovvero un neologismo atto a compensare un significato modificatosi nel tempo in virtù - in questo caso - di processi di costume e di progressi tecnologici.
In senso stretto, dovrebbe indicare che il suono si propaga senza l'ausilio di alcunché di elettrico.
Situazione che ovviamente non si presenta quasi mai, situazione che includerebbe la batteria (propriamente acustica) - generalmente invece esclusa dal magico mondo In Acustico.
In realtà infatti il significato in italiano dell'espressione è "a dirla tutta, noi vorremmo fare altro ma siccome non ce lo lasciate fare vi veniamo incontro e suoniamo a volumi più bassi, con le chitarre acustiche e l'ovetto, così non vi accorgete neanche di noi e siamo tutti contenti".
Viceversa elettrico suona per buona parte degli adulti della penisola come qualcosa di discendenza satanica o semplicemente da non toccare - come i fili col cartello col teschio sopra.
Per qualche tempo, è circolato anche il temibile elettro-acustico - che indicava, nell'involontario lessico delle band disperate, quelli che scendono solo qualche scalino della scaletta del compromesso. Una via di mezzo fattasi parola, fallita in breve e malamente perché mai piaciuta né ai localanti né a chi l'ha intrapresa.
E così, non ci rimangono altro che chitarre acustiche benedette da ddio - che in qualche modo dovremo pur microfonare o elettrificare ma con quel bel color legno che tranquillizzi le sciure, memori forse di qualche pic-nic sociale del ventennio.
Mentre finisco il ragionamento, la cassiera mi sposta quel pezzo di plastica basculante che divide il fondo della cassa dalla spesa di quello che non è ancora riuscito a mettere la roba nei sacchetti e quella di chi è nel mezzo della compravendita (dio mio, qualcuno si occupi di nominare le componenti di un supermercato).
Penso che domani ho un concerto dove non suonerò la chitarra elettrica ma quella acustica, anche perché suonerò in una stanza con un riverbero nemico di qualsiasi distorsione - a meno che non suoni nei My Bloody Valentine.
Penso che suoneremo in elettrico ma con una chitarra di legno vuoto dentro e michi che pesta meno e divi che non schiaccia il pedalino e effe con una rickenbacker.
Alzo gli occhi verso la cassiera mentre incastro il succo d'ananas.
Guardi, mi chiami come la fa sentire meglio.

martedì 8 novembre 2011

Come andare in esilio oggi.




Nel mio quartiere c'è una piccola agenzia di viaggi che tratta esili.
Banalmente, si occupano di trovarti un posto da cui non si possa scappare e dove non ti si possa trovare.
Chi riesce a tornare in tempi brevi è rimborsato.
Guardo la vetrina oltre gli alberi svenuti del viale, e decido che se non ora quando.
Entro, chiedo, mi siedo, spiego e mi girano lo schermo del computer per farmi vedere meglio dove finirò.
Un punto che rimaneva tale nonostante gli zoom, un ammasso di pixel circondato dal mare di google maps.
Il mio esilio si chiama Tristan Da Cunha, una colonia inglese che non ha nulla da offrire - se non la conferma che accoppiarsi tra consanguinei non ha mai prodotto bei ragazzi.
Un vulcano in mezzo al mare, equidistante da Africa e Sudamerica, sulle cui pendici qualcuno ha deciso di insediarsi - forse in seguito a una delusione amorosa. Un avamposto sul nulla, senza aeroporto e persino senza porto, ma miracolosamente abitato.
262 cristiani (in senso stretto) felicemente condannatisi a 90 chilometri quadrati di spasso, sovrastati da un vulcano che potrebbe far finire tutto da un momento all'altro, avvezzi a ristrettezze d'ogni sorta.
La storia di Tristan Da Cunha è breve e tutto sommato parecchio triste, ma merita di essere raccontata.
La avvistano già nel 1500, ma nessuno è così fesso da fermarsi.
Lo sarà nel 1810 Jonathan Lambert, un americano in fuga dal Massachussetes approdato sull'isola dopo aver comprato la bussola in un emporio cinese.
Passa un paio di anni sull'isola pensando spesso a Lisa e alla cheesecake, prima di morire stupidamente inciampando sugli scogli. Gli inglesi ne approfittano per piombare sull'isola e piantarci una bandiera, nella speranza di farla diventare una trattoria per balenieri o per portoghesi che cercassero ristoro lungo la via per l'Oriente.
Non passa che qualche anno e viene inaugurato il Canale di Suez - che rende oltre modo sconveniente circumnavigare l'Africa.
I naufraghi diventano dunque l'unico target nonché carta imprevisti dei Tristani - reietti inglesi che con grande calma si stavano riproducendo.
Per oltre un secolo la vita sull'isola procede quieta e i legami di parentela si infittiscono, anche perché, anno dopo anno, trovare qualcuno con cui accoppiarsi che non abbia già il tuo cognome si fa sempre più arduo.
A dare una botta di vita a un tran-tran di patate e mare in cui è meglio non fare il bagno, ci pensa il vulcano sopra le loro teste - che una notte ricopre di lave centocinquanta anni di inutili sforzi.
E' il 1961. Chi riesce a mettersi in salvo andando al largo con le barche, viene recuperato da Madre Inghilterra - che li trasferisce pietosamente in patria.
Succede dunque che 300 persone ferme al secolo prima, scoprano d'un tratto a che punto fosse arrivato il mondo, quello oltre il mare lunghissimo. La visione non ne seduce che sei su trecento: gli altri 294 non resistettero che due anni nel nuovo mondo. O forse era semplicemente il tempo necessario per far raffreddar la lava.



Da allora, i Tristani proliferano (poco) e resistono (indubbiamente), vendendo a prezzi credo orrendi i loro francobolli a qualche feticista filatelico e tosando pecore.
Se non ci fosse il vulcano di mezzo, la vedresti tutta in motorino in un pomeriggio.
Ti rimangono prati, scogliere e un paesino - Edimburgo dei Sette Mari - nome di tributo al Duca di Edimburgo, nobile che andò in visita agli isolani - un evento mica da ridere da quelle parti.
Nelle vicinanze, altri sassi ricoperti d'erba spuntano dalle acque, ma i loro stessi nomi non sembrano lasciar adito a proposte di espansione dei Tristani: tra gli altri, spiccano la deserta e selvaggia Nightingale, paradiso di chi preferisce i pinguini agli umani, e soprattutto l'adorabile Isola Inaccessibile - il cui nome dice tutto, anche che qualcuno di sicuro c'avrà provato a.
Per incontrare senzienti bisogna pazientare per 2500 km di oceano, distanza che divide l'isola dalla più nota Sant'Elena, che a confronto sembra Porto Cervo.
Compro il pacchetto esilio e ricevo le istruzioni di viaggio.
Si parte da Città Del Capo, sul postale o su pescherecci con massimo 12 fulminati a bordo.
Una settimana di navigazione e una volta vicino all'isola una barca farà da spola e verrà a prenderti sulla nave al largo, perché per l'appunto il porto non c'è.
Giunti sull'isola, saranno solo otto all'anno - tempo permettendo - le possibilità per pentirsi.
Il che vuol dire che un paio di mesi minimo ti toccano.
Tanto sarà il tempo a disposizione perché Tristan Da Cunha riesca a farmi innamorare, riesca a fare di me l'atteso 263esimo tristano. Intanto io mi sto preparando.
Chi volesse può cominciare da qui, il sito ufficiale dell'isola - vasto e completo di ogni informazione, con mappe, vedute aeree, pessime grafiche, informazioni circa la forma di governo che l'isola si è data - con tanto di costituzione, le case in affitto, come arrivarci (prezzi e calendario), dati su come sostenere il loro folle progetto e una sezione per geologi guardoni.
Per entrare invece un po' nel day-by-day dei tristani, è meglio rivolgersi a tristan times.com - il giornale dell'isola che documenta alacremente tutto quel poco che c'è da documentare. Sostanzialmente, se sbarcate sull'isola, già finite sul giornale.
Quelli che vi verranno incontro al molo e sembreranno non riuscire nemmeno a respirare per l'emozione sono però semplicemente afflitti da una particolarissima forma di maxi-asma endogamica che interessa circa il 70 per cento della popolazione.
Credo che sia per questo che vanno così poco ai concerti.


Morte Agli Aeroporti

Morte all'aeroporto.
Alle pianure che rende odiose, già quando le vedi dal finestrino prima che parta l'applauso dei burini.
Morte ai suoi colori pavidi, al grigio auto e all'azzurro banca.
Morte alla sua mouquette strappata alle pizzerie in franchising e ai dentisti tristi.
Morte agli architetti delle tubature chic a vista, dei sedili futuribilmente scomodi.
Morte agli spazi inutili, alle vip lounge, ai viali dello shopping unto, ai profumi da vecchia, agli alcolici che non costano meno da sette anni.
Morte al toblerone e ai tempi inutili.
Morte alle facce da figli di puttana, alle puttane coi figli annoiati, alla gente che gode a stare un'ora in fila all'imbarco come se qualcuno potesse fregarle il fottuto posto numerato.
Morte agli aeroporti dove nessuno resta, dove chi resta la notte si lamenta perché avrebbe dovuto dormire in un posto migliore.
Morte ai saponi scadenti, ai dosatori anche troppo intelligenti, morte ai lavandini a fotocellula che vomitano acqua calda e schiumosa.
Morte alle bombe che non si trovano e a chi le cerca, morte al sospetto che tutto avvolge.
Il sospetto che tu abbia un coltello, la speranza che quello davanti a te suoni al detector, la speranza che gli trovino un coltello.
Morte, tutt'attorno.
Non un mercato, non un panettiere, non uno spacciatore.
Girati, c'è il treno grigio banca che ti porta dritto in centro - dove non c'è più un mercato, un panettiere, uno spacciatore.
Tra l'aeroporto e il centro, il prescindibile.
C'è bisogno di andarci in centro?
Restate in aeroporto, comprate leggete e addormentatevi vicino al vostro gate, così quando imbarcano siete i primi in fila.

giovedì 24 marzo 2011

ALLA DERIVA: le dieci migliori code milanesi - parte seconda.




ATTRAVERSARE IL PONTE PEDONALE DI PORTA GENOVA DURANTE IL SALONE DEL MOBILE

Il Salone del Mobile – o del Design o del Soprammobile – è una fiera in cui probabilmente si discute di lampade da comodino che costano come il mio salotto. Dico probabilmente perché, nonostante la venuta del Salone stravolga completamente la vita cittadina, sono relativamente pochi quelli che raggiungono e visitano la fiera propriamente detta. Le transumanze che mettono in ginocchio la città nella suddetta settimana sono piuttosto figlie del Fuori Salone - ovvero una sorta di Oktoberfest della milanesità, una fitta e tentacolare trama di djset, vernissage, happening, finger food, showcase, buffet, afterdinner, showroom, brunch (e qualsiasi altra parola non italiana vi venga per indicare gruppi di persone vestite meglio di me che cercano scuse per bere e mangiare gratis), capace di paralizzare la città più di congiunzioni astrali come sciopero dei mezzi più pioggia più derby. Per testare davvero le potenzialità codistiche del Fuori Salone, bisogna spingersi però oltre le strade, gli ingorghi e le circonvallazioni che paiono presepi di carrozzerie. Precisamente, bisogna raggiungere la stazione di Porta Genova e, nel piazzale, farsi coraggio e impegnare la scalinata del ponte per pedoni e bici che passa sopra i binari e traghetta i dannati in via tortona, epicentro della follia fuorisalonica. Stiamo parlando di cinquanta scalini e cento metri di ponte: per compiere il tragitto nei momenti clou della settimana incriminata è possibile impiegarci anche quaranta minuti (tenendo inoltre conto che, una volta raggiunta la metà del ponte, tornare indietro richiede lo stesso tempo se non di più, quindi tanto vale). Si tratta di un’esperienza per turisti della coda con una certa esperienza, dove la concentrazione di cristiani per metro quadrato vi porterà prima di tutto a chiedervi se durante la costruzione del ponte e la valutazione della sua portata massima sia mai stata presa in considerazione una situazione del genere.
Quindi, vi ritroverete confusi dal cocktail di profumi dei coinvolti e soprattutto delle coinvolte, rischiando pestoni sui piedi con tacco 12. Il tutto sapendo che al di là del ponte vi aspettano altri mirabolanti code per riuscire a prendere un bicchiere di bianco gratis in un capannone in cui quasi tutti sono entrati sentendo dire lì c’è il vino gratis.


PRENDERE UN BIGLIETTO AGLI SPORTELLI DELLA STAZIONE CENTRALE IL 23 DICEMBRE

Informatizzare l’Italia vuol dire sostanzialmente insegnare a mia madre a programmare un videoregistratore - su larga scala e evidentemente non più il videoregistratore. Un progetto ambizioso insomma. Anche perché nella penisola sopravvive strenua una profonda diffidenza nei confronti delle macchine che sostituiscono gli uomini.
Mia madre avrebbe pagato uno per star lì a schiacciare rec alle tre di notte, e se vi capita di passare dalla Stazione Centrale di Milano il 22/23 dicembre, all’apice delle migrazioni natalizie, scoprirete che non è sola: una fila biblica e rassegnata di nonne e nipoti e mamme e pupi aspetta di raggiungere il lontanissimo sportello – soggetto per altro a chiusure improvvise e ad altri trick di Trenitalia – ignorando deliberatamente le macchinette alle loro spalle.
Coscienti e fieri di incolonnarsi perché con le macchinette non si sa mai, disposte a un’ora di coda piuttosto anche solo di sentirsi una volta respinte o confuse da quella specie di Hal9000 in cui devi infilare una banconota da 50 euro. Una coda che rivendica e chiede umanità, insomma. Ottenendola: gli stessi dipendenti di Trenitalia sono chiaramente ostili ai robottoni, e, in combutta con le grandi code, ignorano deliberatamente un qualsiasi tipo di manutenzione delle macchine. Succede insomma che se qualcosa si impalla, la si lascia impallata – con la scusa che tanto la gente non ci va alle macchinette. In quel momento arrivi tu - che come massimo sai cambiare la suoneria al cellulare, ma che sei comunque convinto di potercela fare a prendere il tuo biglietto di seconda classe toccando uno schermo - e tutte le macchinette presenti sono fuori servizio. Ti giri, vedi l’immonda fiumana.
E hai l’impressione che tutti, soddisfatti, per un attimo si girino a guardarti.


COMPRARE ANTIPASTI PRONTI IN UN SUPERMERCATO IL POMERIGGIO DEL 31 DICEMBRE

La superbia del milanese nei confronti della natura e dei suoi tempi fa sì che processi come il cucinare siano considerati spesso antiquati o comunque appannaggio di qualcun altro. Si pretende dal cibo che faccia tutto il possibile per rendersi appetitoso di sua spontanea volontà o che vi sia uno del mestiere capace di convincerlo. Arrivano però momenti in cui, a meno che il milanese non abbia una nonna sforna polpette o un qualsiasi altro terrestre con qualche capacità culinaria e un minimo di preveggenza, si rischiano débacle socio-alimentari mica da ridere. Una di queste è il cenone di capodanno, evento largamente prevedibile per ovvi motivi, che però il milanese doc ama prendere in considerazione la mattina del 31. Casomai nei giorni precedenti si sia lasciato scappare un dai, il cenone lo facciamo da me, si ritroverà mezza giornata scarsa per correre ai ripari – con l’aggravante di non saper neanche fare una frittata. Scatta quindi il tardivo assalto ai supermercati di centro città, alcuni per altro costruiti attorno a questa filosofia del precotto .
Caso vuole però che altre migliaia di milanesi abbiano anch’esse rimandato fino alla zona cesarini la spesa capitale.
L’ondata è tale che anche all’Esselunga di viale Piave, fortino massimo dello yuppismo surgelato, si rischi di finire alimenti di prima necessità come il salmone (con tutto il salmone che si consuma a Milano e in Europa, non si capisce perché Greenpeace e compagnia bella non abbiano un presidio nel baltico: io la balena a capodanno non l’ho mai mangiata). Alla coda ciclopica delle casse si aggiungono corse spericolate ai banchi frigo e sottocode al reparto Rosticceria & Cose Carissime. Se non avete di meglio da fare e il vostro cenone è già al sicuro, vale la pena fare un salto verso le sei di sera per godersi la vista di manager e pseudo manager che ripiegano su sgombro sottolio e olive nere. Se invece siete lì perché vi era finito il caffé, chiedetelo a quelli di sotto e risparmierete due ore nette.

mercoledì 23 marzo 2011

ALLA DERIVA: Il fascino discreto dello stare in fila - guida alle 10 migliori code milanesi (prima parte)


La dialettica di buona parte delle guide di viaggio presuppone che il lettore sia interessato a scoprire luoghi, pertugi, locali e paesini fuori dai grandi circuiti, dalla folla, dalle code.
L’esperienza di chiunque dice invece sempre il contrario: la gente pare attirare altra gente.
Sempre, ovunque, chi fingendo di non avere altra scelta, chi credendo sinceramente che in fondo sia giusto andare dove tutti vanno – perché in fondo il mondo è venuto così, non certo trovandosi ognuno un suo boschetto dove nascondersi.
E’ ora quindi che si affronti con serenità il senso di colpa che falsa l’inconfessabile desiderio di stare in coda.
La fila ritarda l’atto, e l’attesa colma come le grandi pianure dell’esistenza – che a volte assomiglia a un film troppo lungo, con lunghe fasi in cui non succede assolutamente nulla. Questi e altri potrebbero essere i motivi per i quali pur sapendo dove e quando si verificherà una coda, non si fa nulla per evitarlo e anzi si contribuisce attivamente all’esasperarla.
Una guida a Milano – città che adora come poche altre gli ingorghi, che siano di lamiere o di corpi – non può quindi prescindere da una ristretta e pregna selezione delle migliori code cui poter partecipare e contribuire (altra chiave di successo del fenomeno). Ecco le prime tre.

ENTRARE ALLA MOSTRA SUGLI IMPRESSIONISTI A PALAZZO REALE

Nella terra dei videopoker, del neomelodico e di Checco Zalone che fa la storia del cinema, sarebbe lecito aspettarsi un interesse pressoché nullo per forme espressive che non prevedano lamenti d’amore, buoni sconto o parolacce.
E infatti è quasi sempre così, con buona pace di chi teme un nuovo rinascimento. C’è però a Milano una clamorosa eccezione, vale a dire le grandi mostre di Palazzo Reale, un rito col quale il cittadino paga il suo pegno al minaccioso mondo dell’arte – il sacrificio annuale con cui lavar via una colpa che ci si porta dietro dalle scuole. Succede quindi che ciclicamente il Palazzo Reale proponga una mostra con annessa chilometrica coda, una delle più amate dai milanesi – soprattutto perché la si fa per una causa socialmente percepita come nobile. In particolare, si ama stare in coda per gli impressionisti, uno di quei movimenti che non crea nessuno scontro ideologico o estetico durante la coda (frequente invece in casi di arte astratta o in qualsiasi caso non ci sia un albero, dei monti, il mare o i fiori) oppure per nomi che conoscono anche i gatti e su cui sia possibile fare un minimo di gossip (oh, ma lo sai che Dalì è stato con Amanda Lear?).

PRENDERE UN PANZEROTTO DA LUINI

E’ noto che vi siano specialità culinarie italiane difficilissime da replicare al di fuori della loro terra di origine – anche con gli stessi ingredienti e la stessa ricetta. Milano, ingorda e avara, da sempre invidia al Sud una lunga lista di panzerotti, arancini, sfogliatelle che per qualche motivo i padani non c’azzeccano a preparare.
E così, nel tentativo asintotico di raggiungere l’originale, decide che per ognuna di queste specialità esiste uno e un solo luogo che è giudicato capace almeno di avvicinarsi a come l’ho mangiato giù.
Luini ha vinto da un secolo l’appalto sui panzerotti, e da allora è contraddistinto da una coda quasi sempre davvero importante (o almeno nelle ore in cui si ha fame di panzerotti)– e che viene spesso scusata dai presenti, che si aizzano reciprocamente spiegandosi come mai valga la pena farla nonostante l’azione che la conclude (mangiare un panzerotto) sia piuttosto comune. La posizione, a fianco del Duomo, ne determina ancor più il costante successo: un’ottima soluzione se state facendo una pausa pranzo in centro, avete fame, poco tempo e siete a dieta: un motivo fritto per stare in coda, compagnia assicurata, la sicurezza che abbandonerai entrambe perché devi già andare – e intanto hai risparmiato le calorie del panzerotto.


CODA PER PROVARE UN PEDALINO IL SABATO POMERIGGIO DA LUCKY MUSIC

Lucky music è un negozio di strumenti musicali dove si incontrano il fonico di studio, il padre divorziato che vuole appioppare una chitarra al figlio che caga poco, il metallaro in fasce, il metallaro in armi, le fidanzate dei metallari. Tutti prima o poi ci passano, perché costa meno e c’è tanta roba.
Se siete turisti della coda, Lucky Music ve ne offre una molto caratteristica – contenuta nel tempo ma parecchio impegnativa: la missione, comune evidentemente a tutti i presenti, che genera la coda è il voler “andare a fare un giro da Lucky Music a provare un po’ di cose che probabilmente non comprerai”. Motivi ignoti fanno sì che tutti decidano di provarci il sabato pomeriggio – nonostante la maggior parte dei presenti possa passare o sia passata anche durante la settimana. Se appunto il vostro proposito è di provare quel pedalino lì nella vetrinetta dovrete cercare di attirare l’attenzione dell’uomo con la maglietta del negozio, intercettandolo mentre rimbalza da uno che che sta provando pedalini da ore e un altro che deve decidere se la Squier da 200 euri che ha in mano è lo strumento che fa per lui.
Bloccarlo, pronunciare la frase vorrei provare quel pedalino lì, ottenere una risposta, evitare ulteriori adesso arrivo, riuscire a farsi dare pedalino, chitarra, sedia, cavo e ampli, è già di per sé un’impresa mica da ridere. Mentre fate tutto ciò, sarete in più storditi dalla somma sonora di tutti quelli che stanno già provando qualcosa. Un effetto simile all’orchestra che si accorda, o meglio a una pessima orchestra che non si accorda. Con alcuni grandi classici, tra cui spiccano il chitarrista in erba che è venuto a provare tutti gli esercizi imparati in settimana su una chitarra che non ha intenzione di comprare mentre l’amico chitarrista più indietro tecnicamente guarda invidioso e con falso sorriso, quello che fa male riff storici per cercare di farsi amico la gente intorno (della serie, io non sono come quello là, mentre la provo faccio cose che conoscete) con maggioranza di riff dei deep purple, seguita a ruota da Ain’t Talkin Bout Love dei Van Halen e mezzo catalogo dei Metallica. Quasi una sigla del sabato pomeriggio da Lucky Music è invece Eruption, il pezzo più sborone della storia contenuto nel primo dei Van Halen.
In due varianti: integrale o con il solo tapping finale. Provate a sommare le tre suddette esperienze sonore al ciacerare della gente e a quelli che si urlano le cose che sono da prendere in magazzino. Se e quando riuscirete effettivamente a raggiungere il vostro obiettivo sarete quindi posti davanti al grande quesito: e ora che cosa suono per provare il pedalino? Concludendo appunto che era meglio la coda.

mercoledì 16 marzo 2011

ALLA DERIVA: La Darsena o dei nostri cattivi scadenti



La saggezza popolare sassone (o Walt Disney, fate voi) ricorda che perché una storia funzioni c’è bisogno di un cattivo che funzioni – un cattivo a tutto tondo, convinto, astuto, efficace, lungimirante.
Milano, suo malgrado, non ha mai potuto permettersene uno di livello: i nostri villain sono in larga parte goffi, ingordi e disorganizzati e se dovessero sostituire jafar o la strega di Biancaneve farebbero finire i rispettivi film in un quarto d’ora, con un secco e rapido trionfo dei nani e dell’odioso Aladin.
Massima espressione della loro dilettantesca malignità è la Darsena di Milano, uno specchio d’acqua ampio e dalle mille possibilità commerciali che si pone tra i Navigli, coi quali condivide il liquame e i ratti, e Corso di Porta Ticinese, lombrico di pavé colonizzato da boutique per diciottenni dalla paghetta consistente.
In breve, una sorta di lago artificiale nel fulcro della night life milanese.
Ora, nessuno a Milano si è mai aspettato progetti concreti o vittorie politiche dai sognatori o dagli spiriti liberi (sempre che ce ne siano), quindi usi più o meno hippy di quel pezzo d’acqua non sono mai neanche stati nel novero dei nostri più coraggiosi sogni. Altrove, in una parte di mondo che forse esiste e forse no, avrebbero popolato la Darsena di fenicotteri o noleggiato grossi ciambelloni in cui sprofondarsi bevendo chinotto. Ma appunto, nessuno arrivava a desiderare tanto – chiunque si sarebbe tristemente accontentato di vederla ricoperta da zatteroni con musica zarra e prezzi da denuncia. Pareva una fine nello spirito dei tempi - l’ennesima fabbrica di soldi, messa giù magari con un po’ di stile data la posizione privilegiata.
Macché. Nonostante avessero la strada spianata, vuoi dalla volontà popolare (che a Milano coincide con un esercito di vecchi, asserragliati dietro tapparelle chiuse, che schiumano rabbia contro quasi tutto) vuoi dalla mancanza di opposizioni organizzate, i nostri Jafar – da che sono vivo – non sono riusciti a cavarne fuori alcunché.
Una sorta di piccolo Vietnam delle amministrazione destrorse meneghine. E il paragone non è a caso: la Darsena infatti si presenta da oltre dieci anni come una palude di sterpaglie e rifiuti, nel quale chiunque abbia un minimo di fantasia non può che immaginarsi animali orribili e vendicativi sguazzarvici dentro (più probabilmente non si vedono o perché già morti o perché gli animali orribili non sono mica scemi e preferiscono girare altrove).
Per anni senza un pur misero progetto, il nostro personalissimo Loch Ness aveva comunque una sua discutibile vita: da un lato, dove la riva è bassa, ospitava un parcheggio infido e selvaggio e, il sabato, la gloriosa Fiera di Senigallia, dove i 15enni di un tempo prendevano le misure con quello che credevano il mondo della vera delinquenza – tra bici rubate, bong di ogni forma e colore, retate occasionali, la tua compagna che rubava gli orecchini e tu che ti chiedevi se il Che avesse personalmente autorizzato tutti i magliettari a venderlo di fianco a Marilyn Manson e le Spice Girls.
Sull’altra riva, ai piedi del terrapieno sul quale sferragliano tuttora i tram e le biciclette che qualcuno ruberà, sopravviveva nessuno sapeva come l’Approdo Caronte – anche noto come la Rattaia, per motivi a questo punto ovvi.

Aperta parentesi. L’approdo Caronte era una sorta di virus nel sistema, un varco verso un mondo più libero, approssimativo e forse felice. Nato dalla buona volontà di ragazzi che, pulendo per l'appunto la Darsena, l'avevano trovato sotto una montagna di schifo e rimesso in piedi, resisteva senza allaccio elettrico e tantomeno idrico a non più di trenta metri da locali dove una birra costava già sei euro. Invisibile, si nascondeva sotto un muro di oltre tre metri, quel muro dal quale teoricamente qualcuno avrebbe dovuto affacciarsi per ammirare la Darsena e pomiciare con una frase di comodo. Dato che appunto non c’era nulla da ammirare, nessuno si affacciava e pochi ne conoscevano l’esistenza. E dato che per raggiungerlo non c’era altro modo che scavalcare il muretto e calarsi giù da una scala fuori da ogni norma di legge e buon senso, comunque pochi avrebbero avuto il coraggio di conoscerlo veramente. Affrontati quei pioli, venivi accolto da una casetta scassata ma accogliente, da un bar che sembrava uscito da Mad Max 2 e da un tot di cani punk dall’umore variabile. Oltre la struttura, si fa per dire, un generatore teneva in piedi borbottando le speranze riposte nella serata – che, come l’ambiente suggeriva, era appaltata sempre e comunque all’hardcore, di quello dove ci si distrugge sul palco e sotto al palco, e poi ci si scopre le persone più buone del mondo che a fine serata manca solo il saluto del lupetto.
Suonammo lì (vedi foto) e come da manuale fu un concerto hardcore nella forma prima che nella sostanza – con la band prima che rompe la pelle della cassa e la convinzione che il pezzo viene comunque meglio se si urla di più. Finito di suonare, uscivi e avevi davanti il mare – o almeno il mare che ti meritavi. Sopra la tua testa, il mondo che si mette il profumo e che sogna di cambiare macchina. Eri un mutante di Futurama, ma contento. Chiusa parentesi.




Ma arrivarono i cattivi, appunto. E promisero che tutto sarebbe cambiato, che quella palude avrebbe ripreso vita.
O meglio, sarebbe diventato semplicemente un parcheggio più grosso, uno di quelli capace di tramutare l’acqua in asfalto. Uccisero quel poco di vita che era rimasto, uccisero i ratti come noi e come quelli veri, portarono un enorme cartellone pubblicitario - di quelli che oggi usano per pagare i lavori – e lo piantarono in mezzo come un alpinista pianta la bandiera sulla cima. Attorno, un cantiere ogni giorno più immobile – e si capì che avevano sì svuotato la piscina, ma che forse non sarebbe successo più niente. Così andò.
Finché un giorno non si sa se la giustizia o un divino senso del pudore fecero sì che il comune dovesse rispondere di quella vergogna, in cui era ovviamente coinvolto. E quello disse che qualcun altro aveva sbagliato e che tutto sarebbe cambiato - di nuovo. E ancora oggi si convive con una specie di voragine al centro di uno dei pochi quartieri potenzialmente affascinanti della città. L’impressione è che, chi ne è responsabile, passandovi davanti, provi effettivamente vergogna – ma che questa sia offuscata dalla gioia che hanno nel sapere che i ratti non hanno più nemmeno una rattaia dove andare.

domenica 6 marzo 2011

ALLA DERIVA: Parchi e giardini 2/2: Il Parco Nudo.



L’obiettivo principale di città come Milano è far credere che sotto di essa non sia mai esistito niente, che non vi fossero prati, lombrichi, grilli, funghi, fiumi, terra.
Piuttosto, una sorta di terreno neutro, di piattaforma appositamente progettata per ospitare aree urbane. Il verde che si incontra in giro dà l’impressione di esser stato calato dall’alto con una gru, come grossi vasi d’asfalto in cui far crescere alberelli imbalsamati. Certo non si pensa che Milano si sia estesa attorno ai giardinetti sotto casa tua, che l’urbanizzazione li abbia schivati per pietà.
Nessuno di noi è una città, ma chi lo dovesse diventare sarebbe probabilmente molto fiero di aver definitivamente annientato la natura, i lombrichi, i grilli, la terra sotto le scarpe che poi sporchi che ho pulito tutto il giorno, le formiche.
E infatti così si sente Milano. Libera dai fastidi del mondo come ci è stato dato.
Per questo motivo, le è assolutamente inconcepibile qualsiasi sorta di cambiamento climatico e meteorologico.
Il cielo, che in più della terra ha il vantaggio di non essere edificabile, non teme piani regolatori o tardivi capitalismi.
Il cielo si fa i cazzi suoi, e questo a Milano non sta bene. Che piova molto o piova poco, che vi sia il solleone o l’aria di montagna, il freddo sovietico o l’umidità di Satana, il milanese puntualmente si stupisce e tenta in tempi brevissimi di trarre dal proprio stupore degli enunciati parascientifici.
Vivo in questa città da 28 anni e, se solo avessi tenuto un quadernetto con qualche appunto, probabilmente mi sarei accorto che in febbraio fa sempre un freddo del cazzo, che a giugno piove parecchio, che ogni tanto nevica un po’ a caso e con quella neve che non ci fai le palle, che prima o poi arriva una settimana di caldo orribile.
Ognuno di questi eventi giunge invece al milanese come fosse irripetibile, con un fragore esasperato, e subito lo si classifica o nel novero dei sintomi di un’imminente apocalisse climatica (gente al bancone del bar che con viso preoccupato e hollywoodiano dice “comunque non è normale che faccia questo caldo”) oppure come una sorta di miracolo una tantum. In quest’ultima è categoria si colloca la Grande Nevicata.

La grande nevicata viene ogni paio d’anni, ma nessuno sarebbe pronto a giurarlo, perché ognuna d’esse può vantare ricordi dai contorni mitici e difficilmente collocabili nel tempo. Si parla di neve seria, quella che blocca tutto e che scatena battaglie clamorose davanti alle scuole, la neve di un Dio che cerca di dirti qualcosa. In una delle grandi nevicate milanesi a cui ho preso parte, o forse in tutte, si andò al Parco Lambro a fare gare di bob giù da una collina, che assomigliavano più a una puntata di Jackass dato che quasi tutti erano completamente ubriachi.
Ecco, il Parco Lambro, quello sì, dà l’idea di un pezzo di mondo schivato dalla città, dribblato per rispetto. Entrateci da Via Feltre, possibilmente di notte, possibilmente non dopo aver visto filmacci sui serial killer che girano per i parchi a caso, e cercate di sfruttare gli alberi e le pendenze – due cose con cui a Milano non si ha mai a che fare. Sugli alberi potete arrampicarvi (io non riesco), per il pendio potete fare i rotoloni o aspettare che nevichi tenendo il bob in mano. Potrebbero volerci un paio d’anni o forse no, ma quando accadrà sarà bellissimo e arriveranno persone gioiose e forse un po’ oblique, convinte che Milano sia sotto un incantesimo.

Quello che il Parco Lambro può offrirvi senza manto bianco vale comunque una visita, possibilmente in una notte ispirata, nebbiosa o disperata (quella nel video era un po' di tutte e tre). Fu il teatro dello storico, discusso, incazzatissimo Festival del Proletariato Giovanile nel 1976, quattro giorni organizzati da Re Nudo, duecentomila persone, mille casini. Oggi, gente che lo attraversa in cuffia pensando sto dimagrendo sto dimagrendo, animali feroci che non si fanno vedere e luci aliene che ti fanno credere che a Milano di notte ci siano dozzine di lune.
Anche quando non ce n’è neanche una.