lunedì 9 novembre 2009

Il Cucciolone e l'Esercito Italiano. Ovvero, del perché non esiste verità senza biscotto.

Forse non avevo capito io. Quando ci fu detto che sarebbero arrivati i militari nelle città, tirai fuori dall’armadio quegli scampoli d’indignazione che ancora non avevo usato per altre occasioni e per due mesi furono conati di rabbia e anatemi.
Ma forse, appunto, non avevo capito io.
Li incontrai per la prima volta in piazzale Maciachini, appollaiati attorno a una jeep come liceali tra gli scarabeo, mentre scrutavano l’umanità meticcia e sospetta che fa su e giù per via Imbonati.
E non facevano molto di più, a dirla tutta.
La loro attività prediletta è meglio nota col nome di sparviero.
Funziona che uno cammina in senso opposto agli altri, cercando di toccarli mentre questi sfuggono.
Così facevano loro sui marciapiedi, costringendoti a strisciare lungo le vetrine e i muri taggati, ripuliti, ritaggati e pisciati.
Ma forse appunto sbagliavo io.
Viale Sabotino.
Yuppie randagi in cerca di aperitivo, un tramonto di fine estate che mette tutti d’accordo, gente che si prepara a cambiarsi d’abito.
Attraverso in bici lo scenario, diventandone subito inevitabilmente parte.
Un quadretto rassicurante, una grande tavola calda anni 50 in cui fermarsi a sentire l’aria dei ventilatori sulla faccia. D’un tratto, come uscita dal set di un altro film, irrompe una jeep dell’esercito e, sorpresa, ci sta a pennello.
Tutto intorno è così futile, così inoffensivo e smussato, che neanche un mezzo mimetico pensato per guadare i torrenti coi piranha risulta fuori posto. I due che lo guidano si godono l’aria come me – e non hanno neanche bisogno di chiedersi dove stanno andando. Tutto nel loro sguardo vuoto e ingenuo sembra dire è finita la guerra, dove altro potremmo andare?
Poco importa che non fosse neanche cominciata: per un attimo l’odio verso i ragazzi sfuma in quell’indulgenza che si ha negli ultimi giorni del liceo per i compagni scemi e dannosi.
Ma è solo una sensazione, forse un delirio da overdose di jeep – patologia endemica della padania.
Una seconda e più gustosa opportunità di riconciliazione mi si presenta un mese più tardi durante un diluvio punitivo. E’ un episodio che ha a che fare coi ladri, che non sono quelli che rubano ma quelli che vogliono rubare, possibilmente la notte, possibilmente con un piano, un piano B, delle calzemaglie e un piede di porco.
Quelli che una notte d’ottobre vengono a trovarci hanno di certo voglia di rubare, hanno di certo un piede di porco (di certo, perché se lo sono dimenticati e ora di certo non l’hanno più), difficile dire se avessero un piano.
Ma si può cercare di ricostruirlo.
Allora: la squadra 1 entra nel campo aeronautico militare e ruba tutto quello che può. Ripulito il campo aeronautico la squadra 1 scavalca la rete e raggiunge questo casotto rosso indicato con X sulla mappa. Quando il campo è libero si entra nel casotto, si ripulisce anche quello e si salta sul furgone della squadra 2, che nel frattempo avrà avuto la meglio dei cancelli del parco in cui tutto ciò avverrà.
Questo doveva essere suppergiù il piano.
A ostacolarlo (o favorirlo, non è chiaro), le guardie dell’Idroscalo (d’ora in poi sinonimo dei seguenti aggettivi: sornione, innocuo, inadeguato, accomodante, distratto) e una pioggia di quelle che aspetti che spiova per fare qualsiasi cosa. Ma un piano non puoi farlo aspettare.
Quando viene messo in atto, io ho lasciato da circa venti minuti il casotto rosso indicato con X sulla mappa, lasciandovi dentro le mie chitarre, un amplificatore preso a prestito e un altro di cui avevo finito di pagare le rate da giorni quattro.
Ma non è alla mia strumentazione pignorabile che bisogna prestare attenzione.
Perché il piano ha come suo primo e più sostanzioso obiettivo il campo aeronautico militare, un posto in cui non entrerei neppure per recuperare il pallone.
Questi invece – i ladri, ovvero gente che ha voglia di rubare anche in situazione di conclamata scomodità – ci entrano speranzosi e con quattro bei sacchi da riempire.
Nell’immagino faticosa vita di un ladro, il momento in cui si riempiono i sacchi deve essere uno di quei momenti che ripaga di molti sacrifici. Non mi è chiaro però di cosa si possano riempire i sacchi in un campo aeronautico militare. Medaglie? Microfilm? Granate? Orgoglio in polvere?
La risposta la troviamo a pochi metri dai nostri strumenti (in gran parte miracolosamente indenni da tutto questo rubìo), ed è una risposta surreale, lasciata lì dagli stessi ladri – evidentemente delusi dal bottino.
La risposta è Cuccioloni. Dozzine e dozzine di Cuccioloni. Al campo aeronautico militare hanno scelto di rubare cuccioloni. Il che sottointende un’altra grande verità: al campo aeronautico militare ci sono i cuccioloni. E neanche pochi.
Il cucciolone sembra andare di brutto da quelle parti.
Parentesi, per chi negli ultimi quindici anni fosse stato altrove – in un paese non raggiunto dalla perfida industria dei gelati.
Il Cucciolone è il re dei gelati col biscotto. Il biscotto, sopra e sotto, serve a contenere idealmente lo scioglimento del gelato nel mezzo. Il quale, a sua volta, si divide in tre colori – detti rispettivamente cioccolato, panna (o bianco) e zabaione. Il mondo si può facilmente dividere in persone che cominciano a mangiare il cucciolone dal bianco, da quelli che cominciano dal cioccolato e in persone che non hanno mai mangiato il cucciolone (non risultano a oggi casi di persone che cominciano dal color zabaione).
La vignetta stampata con metodi ignoti sulla superficie del biscotto mette invece d’accordo tutti: nessuno al mondo ha mai riso alle freddure che ti separano dal gelato, di un livello medio che neanche un autore scartato dalla redazione di Paperissima sprint.
Ciononostante, le si legge di rito prima di addentarlo.
Chiusa parentesi.
E fatto sta che.
I nostri militari, i nostri ragazzi, mangiano i cuccioloni – forse più di chiunque altro.
Si incontrano al bar del campo e si leggono l’un l’altro la battuta sul biscotto.
E dopo via, chi si butta sul cioccolato e chi preferisce tenerlo per ultimo – cazzo, esportiamo democrazia mica per nulla. I nostri ragazzi, prima di buttarsi nelle polveri del medio oriente e nelle polveri sottili di Maciachini, non si lasciano tentare dalle facili promesse di libidine dei Magnum, non cadono vittime del fascino qualunquista e revivalista del Mottarello, né si perdono nelle illusioni colonialisti del Solero o nel machismo dei Calippi.
No, i ragazzi chiedono un mondo col biscotto, un mondo in cui sia chiaro cosa c’è sotto e cosa c’è sopra, in cui si capisca dove finisce il cioccolato e dove comincia il bianco.
Questa perlomeno è la migliore delle ipotesi.
La peggiore è la seguente: il barista del campo aeronautico militare, in un momento di rigetto alla Full Metal Jacket, decide clamorosamente di rinnegare il codice d’onore che vorrebbe nei freezer dell’Arma solo gelati virili – e ordina una caterva di Cuccioloni, che viene subito confiscata dal comando e messa sotto chiave per evitare scandali. I ladri si imbattono nel baule galeotto e, credendolo prezioso, ne rubano il contenuto.
Terza ipotesi, che può funzionare anche in accordo con la seconda, è che i ladri siano ghiotti di Cuccioloni – ma ghiotti da preferirli ai diamanti.
Probabilmente, come insegna il Cucciolone, la verità è nel mezzo – cambia solo l’ordine con cui decidi di mangiarla.

domenica 1 novembre 2009

Dobbiamo sbarazzarci di Nonno.

L’orologio per la laurea. La penna, il vestito, la cravatta.
Il mercato dell’eleganza è incredibilmente tenuto su da un branco di genitori aspiranti borghesi o tragicamente borghesi che nelle occasioni speciali investe cifre sproporzionate in accessori che il figlio laureato con lo sputo a Scienze della Comunicazione - e scientificamente stagista per le prossime tre vite – non potrà mai sfoggiare se non alla festa in maschera dei fuoricorso.
Non badare a spese – in quale secolo i mercanti sono riusciti a far diventare quest’espressione tipica dei grandi momenti nell’esistenza di un uomo?
Momenti che comprendono il morire, se non il più importante sicuramente l’ultimo.
E morire costa, anche quando si bada a spese.
Poco meno di un matrimonio, a occhio, forse per l’indubbio risparmio sulle decorazioni delle torte.
Meno noto è invece quanto costi rimanere morti.
L’ho scoperto stasera per contrappasso dantesco.
Ovvero mi avevano rimosso la macchina.
Una curiosa pratica del comune che consiste nel farti credere te l’abbiano rubata.
Il dubbio ti porta quindi a cercare su google rimozioni – che probabilmente ha un sito su freud come terzo risultato – e a telefonare alla signorina delll’ufficio rimozioni, che dopo averti chiesto targa e modello osa un “dove l’aveva parcheggiata?” – domanda da un milione di dollari ogni lunedì mattina.
Capita insomma di ritrovarsi in quegli uffici comunali tappezzati di ordinanze che vanno dall’incombente minaccia del tarlo asiatico ai brillanti progressi del sito dell’anagrafe.
Una parlava appunto di quanto costasse rimanere morti.
L’annuncio, con tono incredibilmente simile a quello dell’ufficio rimozioni, ricordava che nell’anno 2010 saranno eseguite esumazioni dei campi decennali - indecomposti e acattolici.
Ovvero, Nonno sta finendo i buoni del parcheggio.
Nei cimiteri pochi riposano: una buona parte sta lì solo finché qualcuno ha voglia di pagare la stanza (celletta, tecnicamente).
Ma l’annuncio – seppur con modalità e sintassi oscure – dice di più: parla dell’esistenza di due categorie(ulteriori oltre ai semplici morti? Non è chiaro) di trapassati.
Gli indecomposti, espressione che cercando di essere medicale si candida a nuovo splendido titolo di filmaccio zombo, e gli acattolici, termine a dir poco inusitato e presuntuoso che essendo parola del nemico farò mia (salve, sono acattolico. Posso chiederle un caffè?)
E continua: per informazioni e prenotazioni appuntamento con ufficio rinnovo sepolture esumazioni ed estumulazioni, per celletta ossario trentennale chiamare lo 020202.
Un’occasione per farla finita, tra l’altro. Perché come aggiunge subito dopo: richieste di cremazione salme indecomposte – tariffa cremazione 145 euro (di cui 89,32 di cremazione, 46, cassa, 7.92 piastra, 1.81 bolli).
Nonno sta diventando una spesa, non finisce più di morire.
Neanche ha avuto la decenza di decomporsi. E’ un indecomposto, è maledetto.
Chiudiamola qui e cremiamolo che oggi fa anche chic.
Ma 145 euro sono tanti. Alla Lidl una fortuna.
Nonno non si è decomposto e ci vado di mezzo io.
Con tutti i soldi che lo stato e altri ottocento molluschi affini gli avranno succhiato nei tot anni che ha passato al mondo, ancora gliene (anzi me ne) chiedono per disfarsene.
Con l’aggravante della tristissima nota spese – che include 46 euro di cassa (che potrebbe essere la cassa in cui viene cremato – e allora si tratterebbe di legno da fondo cassetto armadio ikea - o forse il recipiente col nonno in polvere dentro. Nel qual caso: avete mai comprato un portacenere da quarantasei euro?), i 7.92 di piastra (per i capelli? Dai cinesi me li taglierebbero anche) e 1.81 di bolli. Bolli? Bolli.
L’acattolico, dice google, è uno scomunicato, un apostata, un battezzato che ha cambiato idea o semplicemente se n’è fatta una.
Dal cartello non è chiaro cosa gli succeda e che rapporto abbia con questo giro di vite e con la decomposizione. Basta non battezzarsi, per non rischiar nulla.
Ma c’è dell’altro. C’è lo sportello per il ritiro ricordi, che solo a dirlo ti viene da vendere l’idea a Gondry. Con richiesta in carta semplice (specifica l’ordinanza), recuperi le cianfrusaglie e gli amuleti che avevi messo accanto a Nonno prima che chiudessero la bara.
E infine, i decomposti.
Il nome continua a far paura, ma implicitamente indica che sono morti senza complicazioni.
E che, volendo, non devi tirar fuori altri soldi: sfrattano Nonno dalla celletta e custodiscono quello che resta nell’attesa che tu vada a prenderlo. Non è chiaro di che tipo di resti si tratti, e non conosco nessuno con una tibia del caro estinto sopra al camino, ma fatto sta che qualcuno te li mette da parte e si fa pagare 93 centesimi al giorno per il parcheggio. Hai tempo trenta giorni per andare a recuperarli, poi finisce tutto nell’ossario comune – luogo di oscura ubicazione che mi immagino (o mi auguro) simile al cratere di un vulcano, profondo da non sentire il rumore del sassolino che cade e possibilmente lontano tot chilometri dall’acquedotto.
Alla luce di tutto ciò, della mia macchina rimossa (non a caso ritirata nel parcheggio comunale per le macchine rimosse di Via Messina, attaccato al Cimitero Monumentale), del ritiro ricordi, dell’esercito degli indecomposti che lotta senza fine con quello dei decomposti, dell’ossario comune e dei bolli sulla cremazione, alla luce di tutto ciò i cinesi che fan sparire i nonni nei container o sadiodove mi risultano ragionevoli, risparmiosi e tutto sommato sinceri.
Ho una famiglia cinese sopra casa mia, di quelle che potresti passarci una vita accanto e riceveresti sempre la stessa gentilezza e la stessa ostinata riservatezza.
Se la passano bene, parcheggiano l’Audi in cortile e dalla faccia sembrano avere meno problemi di me nell’aprire la busta delle spese condominiali.
Poi, la notte, spostano mobili come architetti impazziti. Un continuo, come se non riuscissero a capire dove sta meglio il divano.
Mi piace immaginarmeli alle prese con i cadaveri di molti nonni - di quelli degli amici e dei conoscenti, nonni negli armadi e nelle cassettiere, nelle cassapanche e nelle valigie – darsi da fare per evitar loro cellette e ordinanze comunali, riesumazioni e tumulazioni.
Come dire, almeno la morte non fatecela pagare, evitiamo di annacquare nella burocrazia il dolore, il sollievo e il distacco.
Ci fu un tempo in cui credevo che una parte importante della vita fosse occuparsi di avere una bella morte. Ma il fatto che da un certo punto in poi non si possa evidentemente più curare l’organizzazione del tutto, del come, del dove e del quanto, toglie comunque fascino all’evento.
Quindi, fatemi un funerale alla cinese.
Un baule grosso, l’Amsa che arriva e mi piglia su assieme a un divano sfondato e, quelle dieci persone che contano, salutino dal balcone il camioncino verde che se ne va.